E’ ritornata al teatro Massimo, in un’elegante Prima, la Carmen di Calixto Bieito. Spettacolo superlativo e sempre sorprendente, che conquista e ammalia ma che è inesorabilmente destinato anche a lasciarsi contestare.
Non è uno spettacolo nuovo al pubblico del teatro Massimo di Palermo, l’allestimento della Carmen di Georges Bizet ad opera del controverso regista spagnolo Calixto Bieito. Questa Carmen aveva già debuttato sulle scene della sala del Basile nel 2011, preceduta anche da una certa curiosa attesa, in quanto primo esperimento di regia del Bieito in una produzione operistica Made in Italy.
Il pubblico palermitano non si trova, dunque, dinnanzi a qualcosa di nuovo o mai visto prima. Ma ciò non deve trarre in inganno. La Carmen di Calixto Bieito è uno spettacolo operistico superlativo, eccitante, estasiante.
La mano del regista lavora con cura assoluta, e netta risolutezza, su una messa in scena di stampo avanguardista ma altresì di grande pregio artistico psicologico. Nulla è lasciato al caso. La genialità si palesa in sorprendenti trovate sceniche e recitative che rendono le comparse e gli artisti del coro comprimari dei personaggi principali.
Al puntiglioso minimalismo scenografico si affianca un festoso e vivido tableau vivant della penisola Iberica: tra volgarità e nonnismo degli ambienti militari di stampo franchista, brume fuorilegge delle turbolente città di confine con il Marocco e concitate isterie nazionaliste legate a focose corride e alla liberazione sessuale post dittatura.
I costumi sottolineano la caratterizzazione dei personaggi, come nel caso di Micaela, giovane e ingenua ragazza di paese che per recarsi nella città di Siviglia in cerca di Don José veste abiti Desigual che spera la facciano sembrare alla moda.
Le allusioni sessuali si sprecano. Carmen arrestata e legata per i polsi ad un palo, nella ripresa del ritornello della nota aria Habanera, si trova a stuzzicare sessualmente il gendarme Don José con il solo ausilio feticista dei piedi. Ella allunga prima una e poi l’altra gamba, mostra le cosce e, roteando maliziosamente le caviglie, lascia che José le calzi le scarpe nere. O ancora, tra contrabbandieri e Gipsy, Carmen che inebria Don José decisa a persuaderlo di non più tornare alla vita militare. Con una danza a suon di nacchere si sfila le mutandine in seta rossa e pizzo nero da sotto la gonna e, avvinghiando l’uomo tra le cosce, tenta di possederlo ed imprigionarlo.
Il soave intermezzo musicale che apre l’atto III si appropria della bellezza armonica di un giovane danzatore, mostrandone la totale nuda virilità in un assolo emulo delle movenze dei toreri e calato nella tenebra opalina di una nascente aurora.
Nel ruolo di Carmen la soprano di origine armena Varduhi Abrahamyan. Languida determinata e licenziosa, nel suo corpo sgusciante e sexy, ha esibito una timbrica corposa e rotonda “di gola” ma ben calibrata su fiati poderosi che hanno agevolato il fraseggio -sia nel canto che nei recitativi secchi- e la dilatazione vocale di certe note estese.
Nel ruolo di Don José, a sostituire all’ultimo istante l’indisposto Roberto Aronica, è intervenuto l’avvenente tenore messicano Arturo Chacón-Cruz. L’artista ha sfoggiato un’interpretazione prepotentemente mascolina legata, però, ad una vocalità lirica setosa ed elegante, piacevolissima all’ascolto e mai forzata.
Ottima la Micaela della soprano Maria Katzarava. Dotata di una voce allo stesso tempo accesa e carezzevole, convince nella resa amabile del personaggio e fa balzare dalla poltrona con un gestaccio di rivalsa rivolto a Carmen, in chiusura del III atto.
Il torero Escamillo è il basso-baritono Marko Mimica; voce potente e fisico statuario, è purtroppo però caduto nell’insidia di un’ esecuzione esageratamente frontale.
La musica di Georges Bizet è per l’orchestra del Massimo un tortuoso fiume in piena, ma questa è ben guidata in intensità, sfumature e carnalità dal maestro brasiliano Alejo Pérez.
E’ la Carmen dell’inatteso con l’insegna lignea rappresentate un toro stilizzato che rovina sonoramente sul palcoscenico, sollevando la polvere. Viene, poi, smontata e rimossa da aitanti giovanotti a torso nudo o in canottiera sulle note del focoso intermezzo sinfonico che prelude all’atto IV.
E’ la Carmen del metaforico: la bella sigaraia, ormai fidanzata del torero Escamillo e inguainata in un abito rosa trash, muore per un colpo di fendente alla carotide dopo un ultimo incontro con l’ex amante Don José folle di gelosia ossessiva . L’illusione scenica della colluttazione tra i due e della conseguente morte della donna esula dall’atto passionale di forma letteraria; vi si ravvisa, bensì, un truce femminicidio d’età contemporanea.
Applausi lunghi, scroscianti, meritatissimi per l’intero cast. Vocianti contestazioni, dai soliti noti tradizionalisti della setta dei palchettisti, per il regista; segno che non sempre l’audace genialità di un’ artista viene adeguatamente ripagata.