Sfolgorante, iper tecnologico e policromatico l’avvio della stagione 2019 del Teatro Massimo di Palermo. In scena l’Opera Turandot di Puccini, dominata dall’originale ed incisiva video arte del collettivo russo AES+F. La regia, aliena ed esageratamente ieratica, è del regista Fabio Cherstich.
Turandot, è l’ultima Opera composta del maestro Giacomo Puccini. All’interno della sua partitura gli oneri e onori della transizione verso gli orizzonti della modernità in musica alla Richard Strauss e Claude Debussy. Nel suo destino l’incompiutezza, con la mesta e allo stesso tempo eroica morte della tenera serva Liù sulla scena, coincidente con la morte del maestro Lucense, a causa di tumore alla gola, nella realtà clinica d’una Bruxelles d’inizio secolo. Ad abbracciarne genesi e forme, le speranze roboanti e metalmeccaniche del Futurismo nonché l’addensarsi delle prime pesanti ombre totalitarie del Fascismo. Turandot è tutto questo!
Un’Opera particolare e sfaccettata che viene affidata, dal teatro Massimo di Palermo, al metabolismo ideativo del giovane regista Fabio Cherstich. Questi è già noto al pubblico palermitano per aver dato impulso al progetto L’Elisir di Danisinni attraverso le innovative attività dell’Operacamion. Ad affiancare il regista nella costruzione scenica dell’Opera il collettivo di video artisti russo AES+F. Il risultato d’un sì audace assembramento di forze creative spiazza, nella stessa misura in cui sorprende.
Accade che la regia del Cherstich, nelle note cervellotica e arzigogolata, collassi su se stessa, rivelandosi sul palcoscenico immobile. L’idea stessa di rappresentazione, nella ricercata ed estrema stilizzazione di azioni ed espressione dei sentimenti, diviene forzatamente frontale, anti comunicativa e noiosa. A salvare il tutto le prestazioni, davvero avveniristiche, fantasmagoriche e potenti delle proiezioni curate dagli AES+F.
Il video tripartito, alle spalle del boccascena, è il vero capolavoro della mise-en-scène. Le proiezioni, tra l’onirico e il fantascientifico, s’impongono al pubblico immergendolo in una atmosfera evocativamente pervasiva. Il rapimento di cotanto sfavillio per immagini, insieme crudo e poetico, induce finanche a dimenticare ciò che sulla scena avviene. Cosicché, ad un tratto, voci e melodie paiono giungere direttamente dal recondito ventre del girato tridimensionale.
Sullo schermo ci si sperde nella Pechino del futuro, metropoli addensata da architetture coralliformi auto illuminanti e capsule volanti. Su di essa a giganteggiare, in un placido ma minaccioso fluttuare, un fiammeggiante dragone. È l’aereo palazzo reale dove risiede Turandot. All’interno un freddo e distaccato non luogo, ove androidi definiti e perversi si fanno mezzo esecutore dell’atavica misandria che avvince la principessa. Nell’iperuranio, al di sopra delle cose, si dilata il cosmo di pianeti e creature mitiche (uno tra tutti la donna polipo dai mille seni e dalle mille teste) simulacri acuti e spaventosi della stessa Turandot (la cybermatriarca).
Lo spettacolo vero e compiuto risiede tutto nel video. Appurato ciò lo sguardo torna, pellegrino, a posarsi sulla scena umana. E sono i costumi a raccoglierlo, ancora una volta nelle confezioni del collettivo AES+F.
Trattasi di costumi dalle fogge squadrate e strutturate sul genere Star Wars (le guardie reali in uniforme bianca, con maschere a muso cilindrico e munite di spade laser verdi). Negli accostamenti di colori sgargianti, sugli abiti del coro, v’è il richiamo alle mode dei Futuristi. Mentre nelle tempestate applicazioni di led luminosi sul mantello di Turandot si avvertono gli echi dell’odierna alta moda d’ingegno in stile Zac Posen.
Nella parte della principessa Turandot, la soprano armena Astrik Khanamiryan.
Esteticamente bellissima, l’artista ha però lasciato perplesso (se non deluso) il pubblico. La sua performance vocale, infatti, sebbene glaciale come da caratteristiche del ruolo si è purtroppo appiattita su un limitante quanto estenuante gorgheggiare continuo e manierato. Una forma interpretativa antiquata che non risponde alla sensibilità d’ascolto moderna.
Nettamente più centrati in quanto ad interpretazione e vocalità il principe Calaf del tenore uruguaiano Carlo Ventre e la servetta Liù della soprano napoletana Valeria Sepe.
Lui, in mise da Rambo, ha sfoderato una voce mascolina dal persistente vigore. Vocalità di spinta e piena nei picchi dei maestosi finali del I come del II atto. Ha infiammato l’udito dei melomani più esigenti sul celebre “Nessun dorma”. Ventre sfodera parecchia personalità nella famosa aria, la quale si allarga e flette senza sdilinquirsi nella direzione modernissima del maestro d’orchestra Gabriele Ferro.
Lei, reduce dal grande successo riscosso lo scorso mese con la sua Mimì ne la Bohème, torna alle scene del Massimo nel ruolo delicato di Liù, sfoggiando la sua magnifica e duttile vocalità. Leggiadra e trepida, nell’aria “Tu che di gel sei cinta” i suoi fiati lunghi si dischiudono sulle note più acute conferendo loro un che di evanescente. Allo stesso tempo è maestra nel fraseggio. La Sepe è nuovamente autrice sublime del suo trionfo.
Nelle parti dei gran ministri di Turandot Ping Pang Pong il baritono Vincenzo Taormina, ed i due tenori Francesco Marsiglia e Manuel Piettarelli. Tre vocalità tendenzialmente spiccanti e ridondanti, ma ben amalgamate e calibrate nella ritmica dei singoli interventi e nel cullarsi del terzetto ad inizio del II atto. Nella resa drammaturgica (forse la più interessante) sono tre figure beffarde di burocrati, sincopate nei movimenti come in un distorto carillon, intente ad iniettarsi sostanze stupefacenti che li rendono di volta in volta più frizzanti e marcati.
Davvero eccezionale la scena finale, grandiosamente compiuta nel video della primavera orgiastica, promiscua e gender dell’amore di Turandot.
Un amore, inaspettato e travolgente, che risveglia i sensi e li amplifica nella loro forma felina, floreale e di bambola florida, distruggendo lo spettro della donna che si auto rigenera. Sulla scena, tutto ciò si suggella nel classicheggiante bacio tra i due protagonisti (“con la lingua” lo consigliava lo stesso Puccini). Tra i due livelli della rappresentazione si palesa una sorta di montaggio formale di raccordo (formula perseguita, in realtà, con risultati più o meno efficaci ed intellegibili durante l’intero corso dell’Opera).
Spettacolo adatto ad un pubblico curioso e desideroso di novità.
Repliche ancora il 24,25, 26,27 gennaio 2019. Foto di Franco Lannino e Rosellina Garbo.