Debutta al teatro Biondo di Palermo Spettri, dramma del norvegese Henrik Ibsen. La regia, tetra e fortemente improntata alla psicoanalisi, è firmata da Walter Pagliaro.
Henrik Ibsen ebbe a descrivere i suoi Spettri come “ogni genere di vecchie morte opinioni e ogni genere di vecchie morte credenze”. Gli Spettri, dunque, sono quelli dell’anima e della mente, non ectoplasmi esoterici nascosti tra le cose, bensì loquaci, veementi e arrovellate entità della psiche. Consci tormenti del pensiero, tanto più ingranditi quanto più sono messi a tacere nel profondo del subcosciente o ipocritamente ricoperti.
Sembra allora che non possa esistere luogo d’azione scenico più perfetto del cervello stesso della Signora Alving (la protagonista assoluta del dramma). Per lo scenografo Michele Ciacciofera, un articolato alveo di neuroni (porte aperte, socchiuse, riflettenti e serrate). All’interno di esso, sinapsi in instancabile e penosa interazione sono i comprimari personaggi ibseniani.
Il tutto è poi raccolto all’interno di una struttura rappresentativa simil encefalica composta da tre differenti aree dalle altrettanto diverse funzioni. Il fondo scena, costipato all’intero d’una piccola serra, è il luogo dell’inconscio, delle fobie, delle pulsioni e dell’istinto. Il boccascena, con il suo mobilio borghese, il luogo della ragione e della formalità. Infine il mezzanino, dinnanzi al palcoscenico, con il suo sofà si pone quale ricettacolo di amare, violente e traumatiche rivelazioni, luogo deflagrante di verità rimandate.
Nelle viscere profonde della Signora Alving, si fanno largo terribili ed innominabili certezze a cui ella fa fronte tentando la strada di un’emancipazione morale ed etica che tuttavia non le basterà. È l’incombere fatale della tragedia greca con le sue peculiarità tematiche, ideologiche e brutali.
Il dramma di Ibsen, pur nel suo apparente immoto livore, si consuma dinamico al fuoco feroce del fato, che nella cultura greca antica era considerato potente motore dell’esistenza, a cui persino gli Dei dovevano arrendersi. Nulla potrà opporsi al Fato. Esso è destinato a fare il suo orrendo e inesorabile corso, in seno alle scelte umane, ai loro morti desideri, le inviperite vanità, le inquietudini e le mestizie. Fagocitando (forse) anche un possibile ultimo rifulgere di speranza “Il sole! il sole!”.
Ibsen diviene, dunque, vero archetipo moderno del mondo tragico Ellenico. I suoi piccoli personaggi borghesi assurgono alla categoria dei grandiosi protagonisti classici. E irrompe, come tramontana, il figlicidio, implorato dal giovane Osvald (nel suo deplorato mal di vivere, e nella sifilide che ne mina il fisico) alla madre. Un atto fragoroso che sconquassa finanche le rinnovate e progressiste certezze borghesi (esperite dalla signora Alving). Tutto questo traspare nella regia, lugubre, solenne quasi liturgica di Walter Pagliaro.
Regia che si fa recitazione. Con una sofisticata Micaela Esdra, nel ruolo principe e cardine della Signora Alving, intenta ad amplificare, esaltare, talvolta caricare il registro tragico grand’attoriale. La Esdra si muove leggera e fluttuante, come un fantasma, nella sua tunica verde bottiglia e nel suo ampio paltò in pelle verde petrolio. Le mani, gli arti superiori, sono tuttavia improntate ad una vigorosa resa plastica e fisica.
Maestoso, spaventoso e centrato il Pastore Manders di Massimo Venturiello. Un’oscura incarnazione del più rassicurante raziocinio, sotto al quale si cela impietoso l’ingegno velenoso di un serpente. Alla crociata per il potere sul libero arbitrio di Manders, si associa demoniaco e idolatrante il falegname Engstrad di Riccardo Zini. Questi è zoppicante, come il diavolo che è impossibilitato a mutare gli zoccoli caprini in piedi, veemente e mortifero nella sua melliflua cortesia.
Infine la cameriera Regine, isterica argentea creatura del vivere al meglio, per se stessa, senza occuparsi realmente del prossimo. Personaggio privo di scrupoli a cui l’attrice Roberta Azzarone sembra però conferire l’umanità dei soggiogati.
Nel ruolo di Osvald, il più giovane della compagnia, Matteo Baronchelli. Il suo personaggio si staglia autentico, ardente e prostrato sul palcoscenico.
Baronchelli modella su Osvald un’espressività dapprima greve, come ovattata da un magico incanto (descritto dalle nuvole voluttuose del fumo della pipa), in un secondo tempo avvilita, eroticamente morbosa e disillusa. Nell’estasi di morte che pervade Osvald, facendogli desiderare di non essere mai nato, la pena irrimediabile dell’artista che si ritrova monco del suo creare. Ed è un artista credibile,questo ragazzo, fine sassofonista (per le musiche di Germano Mazzochetti) oltre che attore di talento. All’acume del dramma il viso di Osvald si deforma e allunga in un urlo muto, la travolgente angoscia dello spirito di Edvard Munch.
Un grande Classico della drammaturgia nordica, per uno spettacolo serissimo, truce, corposo e fosco. Un classico, talvolta asprissimo, da riscoprire però nelle grazie d’un cast d’eccellenza parecchio applaudito e d’una regia oculata e ben studiata. Uno spettacolo che prima d’ogni avventato giudizio va ben assimilato ed elaborato. Lo spettacolo ha debuttato in Prima Nazionale il 22 febbraio 2019, repliche fino al 03 Marzo 2019 presso il Teatro Biondo.
Fotografie di Rossellina Garbo. Una critica personale mossa alla produzione del teatro Biondo: tra le foto di scena scattate, nessuna che ritragga i membri giovani eppur valentissimi della compagnia.