Il Signore delle formiche, così era conosciuto lo scrittore, drammaturgo, poeta e mirmecofilo Aldo Braibanti.
L’uomo nuovo, omosessuale, partigiano, antifascista e filosofo nell’obsoleta e arretrata Italietta a cavallo tra gli anni ’50 e gli anni ’60. A Braibanti e al suo celebrale, contrastato amore per un giovane studente, Gianni Amelio dedica la sua ultima fatica cinematografica, recante nel titolo la celebre nomea, presentata in concorso alla 79sima mostra internazionale del cinema di Venezia.
La regia di Amelio sonda con solidità e dettaglio narrativo le vicende umane e sociali, intime e coraggiose, di quest’uomo alieno. Immerge lui ed i suoi comprimari in una nitida fotografia a tutto tondo, che sottolinea i volti (visi maschi per lo più, ma non solo, rivestiti d’una potenza mimica e di un trucco scenico calcato, dirompente, in alcune circostanze espressionista), li staglia, esalta o comprime sulle caotiche brume romane come nei rigidi e geometrici meandri romagnoli; lascia finanche che si affrontino, tra loro e allo stesso tempo con lo spettatore oltre la macchina da presa. Cosi Anna Caterina Antonacci, nel ruolo della madre di Ettore (il giovane amante del poeta) dallo sguardo livido e la postura ferrea, bigotta inquisitrice di Braibanti.
Le vicende umane, di Braibanti, e del suo sfortunato discepolo innamorato, Ettore Tagliaferri, trascolorano nel buio opaco di una società incapace, restia, ipocrita. Con un opinione pubblica schierata, populista e machista (persino, mestamente, tra gli uomini di sinistra più in vista sia nelle fila del Partito Comunista che del giornale l’Unitá).
Poche voci, come fiamme, si ergono a favore di Braibanti, tra questi un giornalista dell’Unitá, Ennio Scribani: controcanto puro, sensibile e privo di timore nella società disequilibrata e polverosa in cui vive (un Elio Germano tanto acuto e lapidario, quanto irriverente e sagace).
Amelio mette letteralmente sotto una teca di vetro la società dell’epoca, con il suo individualismo retrivo, la generale vigliaccheria di genere e l’odio ancestrale che si genera e pervade. All’umana compagine italica oppone la narrazione scientifico-ideologica delle formiche, del loro microcosmo sociale, privo di egoismo e di personalismi, cooperante e dedito al gruppo e alla sua generale sopravvivenza. Le formiche come società perfetta e utopica; quasi i piccolissimi insetti guardassero con tristezza infinita il manchevole e malfatto mondo umano al di fuori.
L’amore è calpestato, Braibanti condannato per il reato di plagio (articolo 603 del codice penale) a 9 anni di galera. Luigi Lo Cascio, lo interpreta facendo leva su un fermo e volitivo controllo delle parole e del loro significato (quanto più se proferito nei dilanianti versi autografi dello stesso Braibanti). In certi momenti, del corroborato impianto dialogico, ne fa profondo declamato, catturando l’ascolto e imprimendo profondo un segno. Il signore delle formiche personificato da Lo Cascio reca in se una grazia dolente, arrabbiata e disillusa restituendo un’immagine oltremodo realistica, centrata eppur lirica.
Bellissimo, il giovane Leonardo Maltese, nel ruolo di Ettore (che finirà, dopo il trauma del manicomio e dell’elettroschock l’ombra terrorizzata di sé stesso); eccelsa, a tratti soave è quanto mai credibile la caratura attoriale totale di questo suo primo spinosissimo ruolo drammatico. A ben vedere, la nascente perla del cinema italiano.
Eccezionale l’altra debuttante sul grande schermo, Rita Bosello nel ruolo della madre del Braibanti. Bosello fa coincidere, sulla figura di questa dignitosa anziana, la fisicità lenta ma instancabile del suo passo con l’onesto e irrimandabile divenire del pensiero civile.
In un mondo dove il fascismo ha cancellato l’omosessualità dal concetto stesso di patria, ed il comunismo ne inorridisce, coprendone e censurandone le molteplici realtà ed il bisogno esplosivo di legittimità, Aldo Braibanti ed Ettore Tagliaferri sono come Aida e Radames, nell’ultimo atto dell’Opera Verdiana. Insieme nella tomba sotterranea del loro amore, su cui tutti sputano con assoluto generale disprezzo e diffuso terrore, intonando “sogno di gaudio che in dolor svaní”, nell’atmosfera onirica, piovosa e splendente di un ultimo vagheggiato abbraccio.