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Rigoletto del teatro Massimo, tra fascino dark e un poco convincente Turturro

È l’evento operistico della stagione 2018 del Teatro Massimo. Il popolarissimo Rigoletto di Giuseppe Verdi per la regia dell’attore e regista americano John Turturro. La maxi produzione lirica, fa il tutto esaurito, riscuote successo  ma purtroppo manca di qualcosa. Per Turturro è una prima volta da regista d’Opera non del tutto riuscita.

rigolettoRigoletto, insieme a Traviata e Trovatore, formano la cosiddetta Trilogia popolare della produzione lirica verdiana. È un etichetta postuma sotto la quale studiosi e musicologi hanno voluto racchiudere le tre Opere della piena maturità artistica e della notorietà internazionale del nostro inimitabile maestro di Busseto. Popolare, ça va sans dire! Musica che avvolge l’udito, parole che permeano la memoria del cuore, un mélange perfetto che inevitabilmente si fa cantare… come in certi musical e nella musica pop.

Se così è per il  brindisi corale e danzante “libiamo nei lieti calici” al I atto della Traviata, e per la focosa cabaletta di Manrico “Di quella Pira” al III atto del Trovatore, ebbene può dirsi esattamente così per tutte le arie, cavatine, cabalette, duetti e quartetti che si addensano nel Rigoletto.

Con questa consapevolezza, del musicalmente potente e gustoso, è bene approcciarsi all’Opera. Ed è già un buon aiuto per qualsiasi regista che ne voglia curare la messa in scena. Una base solida e sicura, da sfruttare.  Conscio di ciò, il Teatro Massimo di Palermo affida  il suo  Rigoletto della stagione 2018 al noto attore e regista italo-americano John Turturro.

Volto noto di Hollywood, Turturro ha esordito come attore in “Cercasi Susan disperatamente” al fianco di Madonna; ha poi recitato per Martin Scorsese, Woody Allen, Spike Lee, i fratelli Coen e Francesco Rosi sino a dirigere dei propri film. Sulla carta tutto sembra funzionare al meglio e promette qualcosa di eccellente. Ovviamente, più le aspettative sono alte più il rischio di una cocente delusione si annida dietro ogni angolo.

Ed è proprio l’insidia da aspettativa, che fa piombare Turturro nel baratro di una regia incompiuta, eccessivamente bidimensionale, frontale e minimale. La domanda sorge spontanea, perché sottrarre tanto ad uno spettacolo che vuole essere quanto di più espanso? A questa regia manca persino il guizzo della contemporaneità, l’allestimento è assai tradizionale. Esso ripiega in una, pur fascinosa, atmosfera decadente nebbiosa e dark che però da sola non basta.

Ci sono richiami al mondo del cinema. Come nella scena del rapimento di Gilda, figlia di Rigoletto, che chiude il II atto, e vede la scenografia della casa – basculante – ove dimora la giovane, allontanarsi dalla ribalta verso il fondo del palco sospinta dai cortigiani rapitori (un gruppo del coro maschile),  quasi fosse una carrellata ansiogena della macchina da presa alla Alfred Hitchcock. Peccato che, tra le urla di Gilda e  la musica montante, restasse sulla scena solo un lungo vuoto d’azione privo di enfasi e coinvolgimento. Il coro del Massimo troppo inerte e mal utilizzato dal regista. Il tutto mentre Rigoletto (il baritono George Petean) s’impegna all’infinito, tutto da solo, a far convergere su lui il pathos del gabbato, privato del più caro bene. Errore madornale di cinema rimodellato a materia teatrale. 

A salvare la produzione le voci, splendide, indovinate, comunicative dei protagonisti   sulla scena. Ed una delegazione del corpo di ballo massimiana, usata a profusione da Turturro (dai a Cesare quel che è di Cesare) ma non sempre valorizzata, come si sarebbe potuto, dal coreografo Giuseppe Bonanno. E poi ancora, trucco, parrucche e costumi (a cura di Marco Piemontese) di grande effetto, eloquenti ed evocativi. 

La soprano Maria Grazia Schiavo alla sua prima volta nei panni di Gilda. Una voce davvero angelica, ampia, esclamativa, agilissima e incantevole nei vocalizzi e nelle infiorettature (degni di nota al coronamento dell’aria “Caro nome”) così come nel registro acuto e nei sovracuti. La Schiavo sfoggia una presenza scenica romantica e vivida. C’era Gilda in scena, è stato come conoscerla davvero. L’abito leggiadro bianco e virginale, sporcato di rosso nella sottogonna – al II atto – dalla carnalità passionale del Duca di Mantova. E ancora l’immenso mantello di Gilda, al III atto, tetro ed avvolgente come la notte e la morte, ma riempito dei petali di rosa dell’amore e del sacrificio, quasi cristologico. Ed è il capo di Gilda, tuttavia, ad attirare più l’occhio, con una lunga chioma rosa confetto, come fosse un personaggio etereo da manga giapponese.

Al tenore Stefan Pop la lode più sentita per aver dato vocalmente, al suo Duca di Mantova, una forte ed ineludibile personalità. È evidente che all’artista ben poco interessi spingere la voce sulle note onde far scattare  un facile applauso. Egli preferisce svicolare abilmente tra il poderoso compiaciuto e l’andante dilettevole, far comprendere le parole utilizzando un ottimo e distillato fraseggio, caricarle del significato che meritano. Stiloso in “Questa o quella per me pari sono” e in  “La donna è mobile”. Anche lui riesce a vivificare il Duca di Mantova, riempiendo le lacune della regia. E alla fine dell’Opera, quasi ci si affeziona al libertino Duca, rubicondo e sovente giulivo.

Al baritono George Petean, il ruolo gravoso e allo stesso tempo straordinario del vecchio, gobbo e brutto Rigoletto. Peccato che il nostro sia un bell’uomo, alto, giovane, imponente, affascinante. Ma ad un non azzeccato phisique du role fa da contraltare una voce prodigiosa, corposa, rotonda che si apre sulle note più basse. Una vocalità grossa ma ben capace di  armonizzarsi, soavemente, con la voce di Gilda e, soprattutto, di mai farsi semplice tappeto sonoro da soliloquio (rischio che si corre nel celebre quartetto del III atto “Bella figlia dell’amore” nel fuoco incrociato di soprano, mezzo soprano e tenore) ma anzi esser nitida e colmare di senso il suo fraseggio. Un bel baritono drammatico verdiano nella famosa e travolgente cabaletta “Si, vendetta, tremenda, vendetta” che chiude il II atto. Petean è un buon attore, espressivamente parecchio impegnato sulla scena.

Ci sono poi Sparafucile e Maddalena. Lui un sicario mercenario, lei sua sorella, fidato braccio destro, ballerina di strada e prostituta. Sono Luca Tittoto e Martina Belli. Lui, vocalità virile in un registro basso deciso; lei mezzo-soprano di carattere e di coloratura. Entrambi, in abiti, trucco (molto calcato su occhi e spigoli del viso) parrucche e andatura sembrano personaggi fuoriusciti dalle brume d’un film di Tim Burton. Quando il cinema si fa teatro a ragione e logica.

Nel costante impegno del teatro Massimo di dar lustro al corpo di ballo, 10 tra ballerine e ballerini sono chiamati ad incidere col loro corpo artistico sulla vicenda lirica del Rigoletto.

Scarno il tableau di danze cortesi al I quadro del I atto, pensato dal coreografo Giuseppe Bonanno. Lo si avverte esageratamente costretto, poco fantasioso e stuzzicante.

Bella la sensualità in declino, scevra di passione ma solo pregna di futile erotismo, che traspare dall’ensemble di ballerine che circondano  un ambiguo Duca di Mantova al II atto. Le danzatrici si schiudono al duca ponendosi sedute a corolla intorno a lui e mostrando il bacino, facendo leva sulle braccia. E ancora, sdraiate sulla schiena puntano le gambe verso il cielo e queste vengono carezzate dal duca, rimando sottile all’eccitazione del di lui membro.

Infine, i danzatori divengono il vento, in lunghi e impenetrabili mantelli neri, che agita e scuote la tempesta nella notte che vedrà la morte di Gilda. D’impatto le luci stroboscopiche a fulmine di Alessandro Carletti.

Il finale dell’Opera è duro. Padre Rigoletto, che crede di essersi sbarazzato grazie al sicario Sparafucile dell’odiato Duca di Mantova, seduttore impune della figlia, si ritrova costei morente dentro il sacco di iuta che avrebbe dovuto contenere l’altrui cadavere. Per Turturro, Gilda – vittima per amore – non è dentro il  vile sacco ma è già volata via. Trasfiguratasi, entra in scena per l’ultimo straziante duetto, come un’anima, per salutare il padre distrutto, un’ultima volta. Unico barlume poetico della regia.

Non si può non far menzione della superba direzione d’orchestra del maestro Stefano Ranzani. Sotto la sua bacchetta l‘orchestra del Massimo raggiunge vette eccellenti d’italica intensità, intenzione e luminosità verdiana.

Musica e canti da ascoltare e portare a casa. Una regia che non credo ricorderemo nel futuro a venire. Splendidi protagonisti, loro si, meritevoli di tanti applausi calorosi e della sala del Basile sold out anche in occasione di una “semplice” pomeridiana del mercoledì. Consigliatissimo a chi vuol avere un buon primo impatto con l’universo Opera.

Foto di Franco Lannino  e Rosellina Garbo.

 

 

 

 

 

Enrico Rosolino

Enrico Rosolino apre il suo cuore al mondo delle arti alla tenera età di 2 anni, allorquando assiste alla proiezione cinematografica del lungometraggio animato di Walt Disney, Biancaneve e i sette nani. Ha inizio così un lungo percorso di scoperta e apprendimento nel variegato e sfaccettato mondo delle arti. Da piccolissimo si appassiona alla recitazione. Negli studi pone molta enfasi e impegno nelle materie umanistiche e, dunque, sceglie un liceo Classico. Durante l'adolescenza si diletta nella lettura ed interpretazione -a voce alta- dei classici greci. A 15 anni si avvicina concretamente al mondo della danza. Prende lezioni di balletto classico per 12 anni, e ad anni alterni segue dei corsi di danza moderna e contemporanea. L'arte coreutica diviene la sua più grande passione e territorio prolifico di ricerca. Si laurea allo STAMS di Palermo, e si specializza al DAMS di Bologna. Nel capoluogo emiliano affina e porta a più completa maturazione le sue conoscenze e il suo senso estetico e critico d'ambito teatrale. Viaggia molto, visita Parigi, New York, Londra, Barcellona, Copenaghen, Boston, Atene e molte altre città del mondo godendo di un approccio diretto e sentimentale con le di loro bellezze artistiche e culturali. Vive attualmente a Palermo e coltiva moltissimi interessi nei più svariati contesti. Da giugno del 2021 è iscritto nell'elenco dei giornalisti pubblicisti presso l'Ordine dei Giornalisti di Sicilia, per Verve si occuperà della rubrica dedicata al Teatro, alla cultura, e agli eventi dal vivo.

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