Un unione carnale, languida e veemente tra Opera e Teatro, è quella esperita dai registi ricci/forte al teatro Massimo di Palermo ne La Mano Felice e Il Castello del Principe Barbablù.
L’espressionismo dodecafonico di Arnold Shönberg e il simbolismo della tradizione ungherese di Béla Bartók. Sono le tortuose rapide che trascinano l’estro creativo dei ricci/forte, enfant terible della regia contemporanea italiana. Sul palcoscenico del teatro Massimo è di scena La Mano Felice e il Castello del Principe Barbablù.
“La Mano Felice” e “Il Castello del Principe Barbablù” divengono per ricci/forte corpus unicum di due entità d’estranea e opposta caratura artistica. Creatura ibrida e bastarda dell’Opera inquieta gravida d’un Teatro dell’abisso.
La Mano Felice per ricci/forte narra il big bang dell’Uomo, nella schiacciante mitologia della propria essenza. Protagonista cosciente d’un percorso traumatico, che lo ha reso carne isterica da elettroshock, l’Uomo si fa portatore sano di una intima irresolutezza, ed imperfezione. Nella figura della donna egli rintraccia la sua stessa sensualità, impervia poiché inenarrabile. Lo stesso Uomo deborda, poi, in un antica iconica crudele figura, despota e prevaricatore di se stesso. Barbablù nell’idea dei due registi è un Hikikomori che ha abbandonato la bellezza intellegibile per sprofondarsi in una angosciata solitudine dell’intimità da auto inumazione.
Ne Il Castello del Principe Barbablù si discende nel profondo inesplorato, recondito, di codesto animo turbato. Un sommerso castello dalle stanze serrate, luoghi del subconscio colme di segreti, ossessioni, dolore e sentimento inespresso. La virginale Judith, creatura della notte, conduce lo spettacolo al nucleo fondo di Barbablù. Rivelandone la luce primordiale, il poter intrinseco.
La Lectio Magistralis, monologo affidato all’attore Giuseppe Sartori -composta per l’occasione dagli stessi ricci/forte – si impegna a cementare il ponte tra i due atti unici per mezzo di una dissertazione tra lo scientifico ed il faceto dell’argomento più caustico e reiterato d’ogni tempo, “l’umanità nella sua pregnante differenziazione alla smaniosa ricerca di un incastro che possa essere anche solo perfettibile”. Sicuramente non può dirsi lo scritto teatrale più riuscito dei ricci/forte, forma e contenuti difatti capitolano spesso nel banale e nello stereotipo senza condurre ad una reale riflessione personale.
Efficaci e visionarie, invece, le coreo mimiche degli attori (uomini e donne) della compagnia dei ricci/forte nel divenire delle Opere. Corpi che fluttuano, vibrano, appaiono, dispaiono, inglobano e permeano la scena come riflessi netti e deformi, spiriti minacciosi e contorti, miraggi soffusi e oppiacei, evocazioni della psiche zampillanti come fontane, sogni in penombra e ricordi appesi, or sinistri or luminosi.
Nelle mani del direttore ungherese Gregory Vajda, la Mano Felice, mostra fiera il carattere astratto e atonale della sua partitura. Si lega, inoltre, quasi sintestesica all’evolversi scenico esperito dalla regia, venendo incontro alla concezione primaria che dell’Opera ebbe Shönberg.
Il Castello del Principe Barbablù viene invece affrontato, da Vajda e dall’orchestra del Massimo, con passionale intenzione esecutiva, in rigoroso ossequio al suo corposo sostrato di musica tradizionale ungherese. Della composizione è accentuata la maestosità roboante quanto l’evanescenza trillante. Rapisce il Leitmotiv, stridente e dissonante, simboleggiante il sangue che gronda e ricopre ogni cosa nell’interiorità di Barbablù.
Sul palcoscenico il basso ungherese Gabor Bretz. L’artista, che si impone per prestanza e bellezza fisica, impregna l’Uomo e Barbablù d’una vocalità ampia esperita nella nitida pienezza d’un poderoso registro grave. Un ruolo canoro cangiante quello di Barbablù, tanto disadorno e recitato nella prima parte tanto appassionato e cantabile nella seconda. Nella parte di Judith, quarta moglie di Barbablù, la mezzo soprano Atala Schöck. Vocalità vibrante nell’iridescenza di una timbrica medio-acuta. Nel canto di Judith ben fluisce l’evocativo e immaginifico dell’Opera, congiunta ad una gestualità essenziale ma persuasiva.
Operazione performativa audace, può dirsi un progetto d’arte pervasivo. Un coagulo brillante di empirico e animismo. Sicuramente adatto ad un pubblico curioso e analitico.
Repliche presso il Teatro Massimo di Palermo ancora il 20, 21,25, 27 di novembre 2018. Foto di Franco Lannino e Rosellina Garbo.