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Recensione: The Predator

Nuovo tassello di una tortuosa saga fantascientifico-orrorifica, The Predator risente di alcuni limiti. Gioca comunque a favore lo sballato team protagonista.

id., USA/Canada, 2018  di Shane Black con Boyd Holbrook, Olivia Munn, Jacob Tremblay, Trevante Rhodes, Sterling K. Brown, Keegan-Michael Key, Thomas Jane, Augusto Aguilera

Ricapitoliamo. Predator risale al 1987, ed è uno dei migliori film con Schwarzenegger. Già nel secondo round del 1990, proiettato leggermente nel futuro, si notava un “imbastardimento”, una fastidiosa tendenza a strafare e a sbandare, certificata, nel 2004 e nel 2007, dal doppio crossover fracassone Alien vs. Predator. Operazione più interessante nel 2010: Predators, pur non raggiungendo i picchi dell’originale, rimaneva in prodigioso equilibrio tra remake, sequel e reboot.

E arriviamo a oggi, quando Shane Black (già nel cast del primo capitolo), affermatosi giovanissimo in qualità di sceneggiatore (suoi i copioni di hits come Arma letale e L’ultimo boyscout – Missione: sopravvivere), forte delle esperienze registiche di Iron Man 3 e The Nice Guys, prova a ricondurre il franchising su un binario coerente. Pare che la produzione non gli abbia lasciato piena libertà, ma la sua “sporca mezza dozzina” di militari reietti e instabili (nonché diversamente traumatizzati) che le circostanze portano ad affrontare una potenziale nuova invasione di mostri cacciatori extraterrestri (in versione sia “normale” che rinforzata), al netto del poco fantasioso turpiloquio, funziona quasi egregiamente, in testa il testimone scomodo McKenna (Holbrook).

A loro si aggiunge l’appassionata scienziata Munn (che cita una mitica battuta); Tremblay, meno smagliante del solito, è il bimbo autistico (figlio del protagonista) che chiama involontariamente gli “ospiti”. Malgrado qualche buon intento, non si va oltre il prodotto terrenamente commerciale.

raxam

Essere avvolti dal buio, completamente proiettati verso un grande schermo sul quale si rincorrono immagini oggi squillanti, domani grigie, dopodomani mute, ma sempre in grado di creare cariche emotive più o meno durature, a volte perfino contrastanti. Sensazioni uguali e diverse delle quali Raxam non potrebbe fare a meno e della cui intensità propone la propria analisi. Condivisibile o meno, è comunque l'invito a non dimenticare un rito aggregativo e assai stimolante per la mente, perpetuatosi nonostante tutto per 120 anni: il cinema al cinema. E ragionarci su, o almeno provarci, non guasta mai.

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