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Recensione: The Nun – La vocazione del male

Arriva un’altra costola di The Conjuring. Purtroppo dopo un po’ il plot di The Nun – La vocazione del male si rivela logoro e disattento

The Nun, USA, 2018  di Corin Hardy con Demián Bichir, Taissa Farmiga, Jonas Bloquet, Ingrid Bisu, Sandra Teles, Charlotte Hope, Lynette Gaza, Bonnie Aarons 

Il valido dittico horror The Conjuring ne ha generato un altro meno interessante, Annabelle (meglio il secondo capitolo del primo, comunque). Forte dell’aggancio a comprovati casi occulti (suggestione che regge sempre meno), l’ormai ramificata serie (sarebbe opportuno arginarla: ricordate la sovraesposizione di Paranormal Activity?) si sofferma ora su un inquietante personaggio già spuntato nei film precedenti, una mostruosa suora posseduta da un demone (la interpreta Bonnie Aarons).

Nel 1952 (si potrebbe parlare dunque di un prequel/spin-off) un sacerdote esperto in indagini su fenomeni soprannaturali (il candidato all’Oscar Demián Bichir, di solito valorizzato da autori come Stone, Tarantino o Scott) e una monaca con doti sensitive (Taissa Farmiga, sorella minore di Vera, “veterana” della saga originale richiamata nel finale) sono inviati dal Vaticano in un sinistro convento di clausura in Romania (dove sono state effettuate quasi tutte le riprese) a indagare sul suicidio di una religiosa (sulla morte che lo ha preceduto, invece, nemmeno una parola, ma non sottilizziamo). Qui pernottano, fra varie diaboliche insidie (che li aiutano a “fare squadra”, anche con il giovane contadino del luogo Jonas Bloquet), scoprendo esistenza e poteri del suddetto spirito maligno.

I minuti iniziali, grazie ai suggestivi esterni, promettono qualcosa; poi però si procede per apposizione di (telefonati) spaventi, a onta di soggetto e produzione firmati dal “demiurgo” James Wan. Quanto a eterogeneità linguistica dei dialoghi, lasciamo perdere!

raxam

Essere avvolti dal buio, completamente proiettati verso un grande schermo sul quale si rincorrono immagini oggi squillanti, domani grigie, dopodomani mute, ma sempre in grado di creare cariche emotive più o meno durature, a volte perfino contrastanti. Sensazioni uguali e diverse delle quali Raxam non potrebbe fare a meno e della cui intensità propone la propria analisi. Condivisibile o meno, è comunque l'invito a non dimenticare un rito aggregativo e assai stimolante per la mente, perpetuatosi nonostante tutto per 120 anni: il cinema al cinema. E ragionarci su, o almeno provarci, non guasta mai.

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