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Recensione: Pet Sematary

Nuova versione cinematografica del romanzo di Stephen King, trent’anni dopo la prima. E la lugubre trama di Pet Sematary non perde smalto.

id., USA, 2019  di Kevin Kölsch, Dennis Widmyer con Jason Clarke, Amy Seimetz, John Lithgow, Jeté Laurence, Obssa Ahmed, Alyssa Levine, Maria Herrera, Sonia Maria Chirila

Dal romanzo di King del 1983 la semi-visionaria Mary Lambert (che fine ha fatto? Cooptata dalla tv) aveva già tratto, sei anni dopo, Cimitero vivente (con tanto di misconosciuto seguito del 1992), incurante, nell’edizione italiana, di restituire l’errata ortografia della parola inglese cemetery (il riferimento è a un antico, maledetto e condizionante camposanto per animali indiano in prossimità della casa dei protagonisti). Non era poi male, benché fosse un prodotto tipico della sua epoca. Di aggiornare un discorso che, nelle grandi linee, rimane attuale (il cieco egoismo umano) si occupano i giovani Kölsch & Widmyer, alle spalle un paio di lungometraggi e un episodio di un film collettivo (tutti horror inediti).

La loro prima preoccupazione è l’intensità degli interpreti: se John Lithgow (nel ruolo del vecchio autoctono Jud, che accoglie gli spaesati Creed in trasferta da Boston a Ludlow, paesino campagnolo del Maine) è una garanzia in qualche modo “nobilitante”, l’onnipresente Jason Clarke (il capofamiglia Louis, medico in cerca di spazio) è sempre più solido, e Amy Seimetz (la traumatizzata moglie Rachel, assediata da fantasmi e rimorsi) è una bella scoperta; anche la piccola Jeté Laurence (figlia maggiore affezionatissima al proprio gatto Church) si fa notare, mentre il fratellino Gage è interpretato – come spesso accade in questi casi – dai gemelli Hugo e Lucas Lavoie.

A parte alcuni significativi risvolti, il clima è rispettato (tra processioni sinistre e camion assassini), fino alla speranzosa/spaventosa conclusione.

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Essere avvolti dal buio, completamente proiettati verso un grande schermo sul quale si rincorrono immagini oggi squillanti, domani grigie, dopodomani mute, ma sempre in grado di creare cariche emotive più o meno durature, a volte perfino contrastanti. Sensazioni uguali e diverse delle quali Raxam non potrebbe fare a meno e della cui intensità propone la propria analisi. Condivisibile o meno, è comunque l'invito a non dimenticare un rito aggregativo e assai stimolante per la mente, perpetuatosi nonostante tutto per 120 anni: il cinema al cinema. E ragionarci su, o almeno provarci, non guasta mai.

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