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Recensione: La casa di Jack

Ancora una volta il sulfureo von Trier sfida le convenzioni per far parlare di sé. La casa di Jack è volutamente indisponente, ma Dillon colpisce.

The House That Jack Built, Danimarca/Francia/Germania/Svezia/Belgio, 2018  di Lars von Trier con Matt Dillon, Bruno Ganz, Uma Thurman, Riley Keough, Siobhan Fallon Hogan, Sofie Gråbøl, Jeremy Davies, David Bailie

Lars von Trier è un provocatore, prima ce ne accorgiamo più presto riusciamo a leggere la sua opera al di là delle sue spesso scellerate dichiarazioni pubbliche (che lo rendono inviso anche al poco coerente distributore italiano). Nell’inscenare in cinque azioni delittuose dipanate nell’arco di 12 anni le efferate malefatte del serial killer interpretato da Matt Dillon – tra sguardi sinistri e sproloqui rivelatori, raramente così convincente (e inquietante) – rivolge uno sguardo (im)pietoso e sconfortato a un’umanità già in necrosi, materiale da congelare e rimodellare a scopo di “ricerca”.

Se le vittime esibiscono colpe comuni (parlantina, avidità, pressappochismo, stupidità…), l’impassibile e impunito assassino (ingegnere con frustrate aspirazioni di architetto, il cui disordine mentale è peggiorato dalla compulsione per la pulizia) che le manipola goffamente è comunque destinato a un inferno dantesco (vi giunge in un passaggio narrativo rocambolesco e surreale, da accettare in blocco), dove i suoi assurdi proclami sono confutati (è una scusante, però è importante) da uno scafato Virgilio (l’eccelso Bruno Ganz, recentemente scomparso) e la sua dannazione, accelerata dalla sicumera, è inevitabile.

Per il regista, che “omaggia” pure Bob Dylan, è il compendio d’una discussa carriera (c’è una sequenza con spezzoni scelti della sua filmografia); chi lo sostiene ne sarà entusiasta, ma ancora qualcun altro passerà dalla parte dei detrattori. Circola una seconda versione in lingua originale, con scene più esplicitamente cruente.

raxam

Essere avvolti dal buio, completamente proiettati verso un grande schermo sul quale si rincorrono immagini oggi squillanti, domani grigie, dopodomani mute, ma sempre in grado di creare cariche emotive più o meno durature, a volte perfino contrastanti. Sensazioni uguali e diverse delle quali Raxam non potrebbe fare a meno e della cui intensità propone la propria analisi. Condivisibile o meno, è comunque l'invito a non dimenticare un rito aggregativo e assai stimolante per la mente, perpetuatosi nonostante tutto per 120 anni: il cinema al cinema. E ragionarci su, o almeno provarci, non guasta mai.

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