Biopic triste ed empatico, Judy racconta le ultime performance europee della Garland. Zellweger carica la sua interpretazione (da Oscar), ma coglie nel segno.
id., GB, 2019 – di Rupert Goold con Renée Zellweger, Jessie Buckley, Finn Wittrock, Michael Gambon, Rufus Sewell, Darci Shaw, Andy Nyman, Daniel Cerqueira
All’inizio di questo biopic di Rupert Goold (all’attivo l’inedito True Story), che Tom Edge ha tratto dal teatrale End of the Rainbow di Peter Quilter, si ha l’impressione che la valente, mimetica Zellweger nell’impersonare la mitica Judy Garland – al secolo Frances Gumm – durante il tour londinese di cinque settimane (fra le ultime della sua vita) ecceda con le faccette. In seguito, però, ci si scorda che a vestire i panni della tormentata cantante/attrice morta quarantasettenne nel 1969 (opportuna discrezione sulla sua scomparsa) sia stata chiamata l’ex-Bridget Jones (che si produce con talento anche nelle ardue esibizioni canore).
Garland, colta nel passaggio tra il quarto divorzio e il quinto matrimonio, è consumata, dipendente da farmaci e alcool, insolvente e inaffidabile, e la sua unica, lucida preoccupazione è non perdere i figli più piccoli (Liza Minnelli – qui Gemma-Leah Devereux – è già adulta). Malgrado gli scompensi (con inevitabili conseguenze), la potenza vocale c’è ancora, e così l’amore (lenitivo) del pubblico.
È l’idea portante (esplicitata anche dall’empatia con la coppia di fans britannici all’uscita del club), rafforzata dai flashback riguardanti l’exploit di una Judy ancora sedicenne (con il volto di Darci Shaw), sinistramente instradata dal produttore Louis B. Mayer (Richard Cordery) sull’alienante set de Il mago di Oz, marcata stretta da una spietata assistente antitetica alla comprensiva Rosalyn di Jessie Buckley (in abiti regali nel contemporaneo Dolittle), che l’aiuta durante gli ultimi concerti.