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Recensione: Io che amo solo te

Italia, 2015 di Marco Ponti con Riccardo Scamarcio, Laura Chiatti, Maria Pia Calzone, Michele Placido, Eugenio Franceschini, Eva Riccobono, Luciana Littizzetto, Dino Abbrescia

io_che_amo_solo_te_1Latore di una ventata d’aria fresca nella commedia nostrana grazie all’acido Santa Maradona, nel 2001, Marco Ponti aveva rilanciato discretamente con A/R – Andata + ritorno (2004), ma con Passione sinistra – peraltro seguito a ben 9 anni di distanza – il suo stile pimpante cominciava a mostrare la corda. Echeggiando il titolo successivo (Ti amo troppo per dirtelo, sbattuto direttamente in prima serata), Marco confeziona ora quest’adattamento di un romanzo di Luca Bianchini, a cura dello stesso autore, del regista e di Lucia Moisio. Siamo nella suggestiva Polignano a Mare, nel barese: Chiara e Damiano (Chiatti e Scamarcio, di nuovo insieme dopo Ho voglia di te) stanno per convolare a nozze con poca convinzione (soprattutto lui); sono figli rispettivamente di Ninella (Calzone, inappuntabile) e Mimì (un concentrato Placido), che invece di amarsi non hanno mai smesso e rinunciarono a sposarsi quando il fratello della donna (Antonio Gerardi) fu arrestato. La trama secondaria, più appassionante e sentita, adombra la principale, quindi il film funziona a metà e rende esornativa la dozzina di caratteri di contorno, pur resi da attori sostanzialmente ben guidati: la moglie “di ripiego” Antonella Attili, anzitutto, seguita da una spassosa Riccobono (evidentemente a suo agio con Ponti), Abbrescia, Uccio De Santis (il prete) e Dario Bandiera, finalmente in un ruolo scontornato; poi ci sono Michele Venitucci e Alessandra Amoroso, che ovviamente canta. Sacrificato lo “showman” Enzo Salvi, mentre la Littizzetto si comporta come in tv.

raxam

Essere avvolti dal buio, completamente proiettati verso un grande schermo sul quale si rincorrono immagini oggi squillanti, domani grigie, dopodomani mute, ma sempre in grado di creare cariche emotive più o meno durature, a volte perfino contrastanti. Sensazioni uguali e diverse delle quali Raxam non potrebbe fare a meno e della cui intensità propone la propria analisi. Condivisibile o meno, è comunque l'invito a non dimenticare un rito aggregativo e assai stimolante per la mente, perpetuatosi nonostante tutto per 120 anni: il cinema al cinema. E ragionarci su, o almeno provarci, non guasta mai.

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