Pippo Delbono, genio eccentrico ed estremo del teatro sociale d’avanguardia, si confronta con il settecentesco oratorio di J.S. Bach La Passione secondo Giovanni. Il risultato è vincente, incisivo e denso di significato, ma il pubblico non comprende e contesta animatamente. Per i palermitani è la serata della vergogna
Avete mai osservato i cavalli che per le vie della nostra città trainano, pazienti e seri, carrozze e landò? Ebbene, fateci caso, essi sono sempre muniti di paraocchi. La caldissima serata del 27 Aprile 2017 ha visto la sala del teatro Massimo di Palermo riempirsi di tanti, troppi “equini” con sulle tempie ben fissata un’invisibile visiera completa di paraocchi, incapaci di cogliere l’avanguardismo di Pippo Delbono.
Una sostanziosa fetta di pubblico del Teatro Massimo, in modo piuttosto insolito, si è rivelata incapace di aprire lo sguardo a 360°, comprendere, apprendere e magari lasciarsi turbare. Ben felice, dunque, di camminare a testa bassa avendo dinnanzi l’unico range visivo possibile, lo stesso monotono sentiero battuto. In questa atmosfera da “soma”, la scena ha partorito con gran dolore ed immensa partecipazione “La Passione secondo Giovanni” oratorio di J.S. Bach nella versione viscerale e risorta dell’eclettico ed impavido Pippo Delbono.
Delbono è un artista maturo e completo, uno tra i pochi al mondo capace di rendere materico un concetto o un’idea. E’ inoltre lo sperimentatore, insieme tenero e crudele, dell’essere umano nella sua fascinosa complessità quale tramite ed essenza. Un vero genio dell’arte tout court, riconosciuto come tale anche a livello europeo.
Delbono si lascia alle spalle il suo intenso e vorticoso passato teatrale per tuffarsi nella resa scenica di un oratorio a tematica sacra. Esaudisce così un desiderio confidatogli dalla madre in punto di morte. Fa confluire un tale desiderio affettivo con un’esigenza comunicativa personale e trova nel teatro Massimo un committente elastico e recettivo. Roba da artisti veri.
L’oratorio è nella definizione da manuale “un genere musicale d’ispirazione religiosa, non liturgico, di genere drammatico ma eseguito senza rappresentazione scenica, mimica o personaggi in costume”. Dunque materia morta, inerte. Qualcosa che al giorno d’oggi non avrebbe più alcun diritto d’esistere se non durante la settimana santa in qualche chiesa dell’Europa germanica. Questo in definita “La Passione secondo Giovanni” di Johann Sebastian Bach. Musica pregevole ma irrimediabilmente superata, amorfa e ormai quasi totalmente scevra d’emozione.
Ciò che fa Pippo Delbono è restituire ad una sì svilita composizione nuovo vigore. Ridarle luce. Metterla in scena e programmarne una resurrezione. Si tratta di un progetto impervio e fragoroso. Un’impresa! Egli si fa concertatore di una creazione ex novo.
Nella visione della Passione di Delbono, Gesù è un ribelle che grida nel nostro contemporaneo “deserto” di morti, di emarginati, di migranti, di fragili e di vinti. A Gesù il regista offre la poetica, densa e tormentata, di testi da lui appositamente scritti. In essi si riscontra un colorito languore dell’anima e dell’intelletto che si pone in netto contrasto con le algide ed eteree preghiere in musica confinate tra le arie di Bach.
La presenza sul palcoscenico di Delbono è quanto mai cinetica, intensa e dissacrante ma anche lirica ed empatica. Il ponteggio presente sulla scenografia (opera di Renzo Milan) è un Golgota misterioso e arcano che attende d’essere esplorato dal regista. Delbono lo scala, vi transita come un pellegrino in cerca di una verità sfuggente. Da attore si fa carico dell’animalesca insensatezza dei fustigatori e dei carnefici del Cristo. Con una frusta percuote i primi scalini che immettono all’impalcatura, e la frusta di rinculo lo colpisce sulla schiena. Con un tubo d’acciaio percuote il ferro che compone il ponteggio ed è il clangore dei chiodi infilzati.
Delbono riveste Pietro, il discepolo rinnegatore di Cristo, della porpora degli alti prelati e ne fa coincidere le fattezze con l’autorità secolare di Ponzio Pilato. In questa iconografia la sempiterna fallibilità umana della chiesa cattolica.
Ma è a Gesù che Delbono intende dare la mano nell’ascesa verso la morte. E lo fa, con carismatica gentilezza. Senza falsità. Lo spoglia dallo smoking bianco della santifica eroicità rivelandone il petto umano e mortale. Lo pone nell’idea della croce tra Safi Zakria e Martino. Cristo nel momento supremo della sua Passione si trova accanto un rifugiato afghano ed un giovane uomo che vive presso la Missione Speranza e Carità di Biagio Conte. A questo Gesù Delbono offre il coro ritmico e coreografico dei sordomuti e del loro magniloquente linguaggio dei segni. Autentico dono prezioso per colui che di oro, incenso e mirra non saprebbe cosa farsene.
Gesù viene deposto infine tra le coperte isotermiche, solitamente distribuite tra i migranti o i terremotati.
Nel suo scrutare affondo il Cristo, il nostro prezioso Pippo Delbono sembra risolvere la paura di Dio che da sempre lo attanaglia.
Questa “La Passione secondo Giovanni” per il Delbono, ma al pubblico in sala interessa solo la musica. Il novello messaggio dell’autore per loro è superfluo, la sua attorialità non funzionale all’ascolto. Delbono viene apostrofato malamente dalla platea e dai palchi. “Va’ chiuti” (vai a rinchiuderti) imprecano in dialetto. “Io voglio ascoltare la musica, si sieda e stia zitto” urla una signora indispettita mentre il regista, lasciata la scena, trova un differente spazio espressivo tra le poltrone della platea.
I famosi paraocchi, di cui sopra abbiamo dibattuto. Questi strumenti che ci vogliono schiavi della consuetudine smorta e immobile del concerto classico e della cantoria sacra. Quella stessa consuetudine che ora vorrebbe leggere commenti entusiastici sui solisti che hanno preso parte alla messa in scena. In verità, in virtù dei fischi che hanno accolto Delbono a fine rappresentazione nulla menzionerò dei loro nomi ne tanto meno delle loro esecuzioni canore.
Mi avvio alla conclusione chiedendo al pubblico di domani un maggior rispetto per questa Passione. Per il dolore condiviso che la pervade e che si può ascoltare nel lamento sommesso da merlo ferito di Bobò.
Bobò è l’anziano inseparabile amico di Delbono, nonché figura iconica del suo teatro. Sordomuto e analfabeta, venne strappato via dal regista alle sofferenze del manicomio di Aversa, nel quale ha vissuto internato per ben 47 anni. Nel suo corpo piegato, nel suo viso dolce e straniato e in quel suo pianto aggrovigliato e rauco, sommerso dal coro lirico del teatro Massimo che loda le sacre ossa di Cristo e il sepolcro che dischiude il cielo, vi è la summa del messaggio di Delbono.
Un messaggio in chiave pasoliniana alla cristianità tutta; un invito a non dimenticare chi versa nella sofferenza, nell’abbandono, nel rifiuto. Non dimenticare le pene proprie, del prossimo e di Cristo stesso. Di non accontentarsi di un ipocrita ed inutile pezzetto di cielo.