In “Perfetti sconosciuti” una cena fra sette amici si trasforma in un aspro confronto. Ne abbiamo parlato con il regista Paolo Genovese e due attori del cast, Edoardo Leo e Marco Giallini
Due settimane di fila in cima alla classifica dei film più visti in Italia (al momento in cui scriviamo con circa 8 milioni di incasso) fanno già di Perfetti sconosciuti – ambientato in casa di una coppia che ne ospita altre due, più un ulteriore amico, in occasione di una cena durante la quale, per gioco, si decide di rendere pubblici messaggi e telefonate di ciascuno in arrivo, a dimostrazione che fra i convenuti non ci sono segreti (mentre naturalmente ne hanno tutti) – un piccolo fenomeno piuttosto interessante. Sette bugiardi in un interno: uno spunto che fa pensare, con le dovute distinzioni (e sottratto un personaggio), al recentissimo The Hateful Eight di Quentin Tarantino. In giro per promuovere il film (potremmo soprannominarlo The Hateful Seven?), il regista Paolo Genovese e due degli interpreti, Edoardo Leo e Marco Giallini (gli altri, lo ricordiamo, sono Kasia Smutniak, Anna Foglietta, Valerio Mastandrea, Alba Rohrwacher e Giuseppe Battiston) hanno risposto alle nostre domande.
Paolo, il tuo film, oltre a riferirsi indirettamente ad altri lungometraggi “d’appartamento”, potrebbe avere dei legami inconsci – non diciamo perché – con opere quali Sliding Doors, Smoking/No Smoking o Lola corre?
«Possibili confronti con altri film ambientati in un appartamento – e ne sono stati fatti pochissimi – sono inutili. La tematica di Carnage è completamente diversa da quella di Cena tra amici o dalla nostra. Quanto alle realtà alternative, sì, ci abbiamo pensato: viene in mente Sliding Doors, che è il capostipite, ma anche lì si tratta di storie diverse. Rimane una similitudine concettuale.»
Girare in un solo ambiente è difficile?
«È difficile perché è come se si fosse in cucina: ci sono pochi ingredienti e devono essere ottimi. Due soprattutto: la scrittura e la recitazione. Non hai grandi spazi, panorami, cambi scena… le musiche! Insomma, quando si sta dentro una casa la storia deve funzionare. Non c’è una via di mezzo. Non hai punti di riferimento. In ogni film c’è generalmente un centinaio di scene, e ognuna è a sé stante, ha un suo ritmo; quando l’hai finita ti rendi conto se funziona o no. Un film realizzato in un solo ambiente ti dà l’idea che stai facendo un’unica grande scena, che spezzetti. Quindi è complicato capirne il ritmo, è un unicum indivisibile, e te ne rendi conto al montaggio.»
Edoardo Leo, Cosimo, il tuo personaggio in ” Perfetti Sconosciuti”, è un donnaiolo che non “smette quando vuole”?
«In realtà mi andava di fare un personaggio dalle tinte più scure, torbide… Che fosse spiazzante pure per il pubblico rispetto a quello che ho fatto negli ultimi anni. Quando Paolo mi ha dato la sceneggiatura, se avessi potuto scegliere un ruolo avrei scelto proprio quello.»
Fra le molte scene divertenti, trovo geniale quella in cui devi scattare un selfie…
«È stata difficile da girare. Lo spettatore legge già gli sms che arrivano, i quali sono stati aggiunti in post-produzione, noi non li vedevamo durante le riprese. Era complessa anche perché alcune inquadrature di quella sequenza le ho fatte davvero io con il telefonino, quindi sentivo un po’ di responsabilità.»
Marco Giallini, Rocco, il carattere che interpreti, è forse uno dei pochi personaggi positivi, saggi del film.
«Sì, ne esce bene, anche se non possiamo raccontare il finale. Con Paolo siamo molto amici, da quando insistette perché partecipassi a Una famiglia perfetta. Appena mi ha proposto Perfetti sconosciuti, Rocco era il personaggio che mi piaceva meno. Invece poi lavorando e riguardando il risultato finale, credo di aver fatto un discreto lavoro, e credo che sia un grandissimo film. Nel senso che se lo affianchi a opere nostrane degli anni ’70 – senza esagerare – forse non sfigura, così come i lavori di Virzì, Sorrentino e qualche altro. Lo annovererei fra i film che possono rimanere nella memoria della gente. Comunque ti lascia qualcosa, perché ridi e poi ne discuti un po’.»
La scena in cui parli con tua figlia al telefono davanti a tutti era a rischio di retorica, e invece è molto riuscita.
«Grazie. Infatti, la temevo, l’ho detto a Paolo, però penso di essere stato bravo – e penso che sia stato bravo anche lui – a ripulirla dalla retorica e a darle un po’ di verità.»