Myrhiàm, in ebraico ed in aramaico, per la nostra cultura semplicemente Maria. In nome della madre è il racconto in prima persona di una amabile, ingenua fanciulla del popolo abbagliata, un giorno, dal mistero Assoluto della vita.
Maria, oltre ciò che di lei il cristianesimo tramanda. La fanciulla, la giovane promessa sposa, la puerpera e la neo-mamma, la donna vivida e sincera oltre ogni dogma. In nome di se stessa, In nome della Madre, Maria si racconta all’orecchio immaginifico dello scrittore Erri De Luca. Ne scaturisce un romanzo, denso d’un esistenza rara eppur concreta e terrena, perpendicolare alle architetture celesti ma pregna d’un sentire autonomo.
Un racconto di tale trascinate efficacia da riversarsi, fluido e permeante, in una incisiva formula monodica. Un testo teatrale lirico e intenso, giocoso e spassionato, delicato e finanche virulento. Un’opera in cui Maria, la donna alla quale la luce spalanca la finestra, diviene personaggio drammaturgico. Il primo della nuova era storica del mondo.
Maria, per il regista Gianluca Barbadori, è la donna immersa nell’assoluto. Visivamente, sul palcoscenico, una eterea, femminea figura che si staglia su un ovale bianco candido e rifrangente, e a sua volta investita da luci policrome e cangianti. Letteralmente una donna preservata dal peccato originale per volere divino (l’ovale bianco) ma calata nell’arcobaleno ora abbagliante, ora caldo, ora carico della propria umana natura.
La natura umana di Maria, dunque, quale concetto portante dell’intera sua vita straordinaria. Natura feconda, lieve e allegra ma anche terrorizzata quando non rabbiosa. Un’umanità mai solo percepita ma manifesta, pur nella dimensione di una grazia immensa. La grande bellezza di una donna che riconosce l’angelo poiché portatore di un dono ma anche, più realisticamente, di una mancanza.
L’attrice Galatea Ranzi, eccelsa, si lascia guidare dalla propria arte e dall’idea pervasiva stessa di Myrihàm. Ne diviene simulacro coreutico, nelle pose aggraziate e tridimensionali ma allo stesso tempo diafane, e pittorico nell’esplicito omaggio all’Annunciata di Antonello Da Messina.
Ne accentua i contorni muliebri nel velo e nel turbante che adornano il capo della ragazza e nei capelli sciolti che dipingono la partoriente. Ne forgia l’eloquio su un declamato chiarissimo, cullato con straordinaria musicalità su un inflessione ed un accento ebraico; non mancando altresì di raccogliere, nel costrutto tonale della voce e del respiro, ogni singola linea espressiva dell’interiorità.
La Ranzi restituisce a Maria, generosamente, l’autenticità del suo esistere.
Maria che si sente leggera malgrado il ventre gonfio della creatura che ivi si forma. Maria che non fa caso a quanti, sputandole alle spalle, la ingiuriano e infangano come fedifraga e, pur schiva, risponde con parole affettuose e benedicenti. Maria che prende il sole in terrazza, lasciando che i raggi le scaldino il pancione, e si concede il gusto di un dattero. Maria che è ben felice di partire alla volta di Betlemme a dorso di mula. E lo canta alla madre Anna “ani lea le lydatha” (io parto). Sentendo, allo stesso tempo, d’esser pronta ad affrontare il parto “leda”.
Maria che guardando negli occhi Giuseppe, suo promesso sposo, “come neanche una moglie osa fare” ne rassicura i turbamenti ribadendo la propria fedeltà, fatta di stima e amore puro. Un amore che si sublima e conferma, durante il lungo viaggio, negli abbracci possenti con cui il buon falegname agevola la monta e la smonta dalla cavalcatura della sua giovane sposa.
Myrihiàm, la donna, dunque, sempre e comunque. A suo agio tra le bestie della mangiatoia, mentre partorisce da sola, alla luce di una stella cometa che per lei è bellissima e non simbolo di cattivo presagio.
La donna che, guadagnato il centro della scena, sgrava tra infinite doglie in un singhiozzo e tagliato il cordone ombelicale con un coltello affilato, si concede la morbidezza placida della prima poppata del suo piccolo Gesù. Ma anche la donna che si rivolge a Dio, con veemenza, spaventata da una premonizione in cui lei stessa consegna il figlio, ormai uomo, ad un sacrificio di sangue, durante un banchetto di nozze.
Maria che desidererebbe sia fatta la sua volontà di madre; che preferirebbe vedere il suo Gesù semplice, illetterato, magari brutto, stupido e menomato piuttosto che Messia redentore.
Una preghiera dunque, In nome della Madre. L’invocazione di questa donna vicina alla terra ma sovrumana, dentro al suo tempo ma lontana nell’intelletto mille anni luce, disponibile ad offrire se stessa ma desiderosa di preservare quel bimbo odoroso che sente frutto del suo impegno fisico.
Una donna che non manca di affermare se stessa, bucando la terza parete e uscendo coraggiosamente nel buio della sala, dall’ovale della divinità. Con una figura che ad un tratto, sotto al velo che ormai è uno strascico, giganteggia e incede solenne verso un sentiero che intendiamo infinito. In nome della madre è uno spettacolo minimale ma terso, intriso di una verità che ferisce e genera, ad ogni parola nuova, rinnovata consapevolezza. Magnifico.
Al Teatro Biondo di Palermo fino al 12 dicembre.