Non “solo” Grand Opéra Verdiano. Emma Dante profonde su Les Vêpres Siciliennes il suo inequivocabile glorioso genio d’artista coniugandovi l’anima impetuosa e sincera del proprio senso civico. L’Opera rapisce, esalta e trionfa sulla scena del teatro Massimo di Palermo.
Les Vêpres Siciliennes riuscitissimo cimento di Giuseppe Verdi con la grandiosità espansa del Grand Opéra francese si fa materia d’arte, duttile e beatamente corrosa, nell’estasiante lettura del genio di Emma Dante. Il direttore d’orchestra Omer Meir Welber non dibatte con l’ingegno della regista, non si contorce gridando al sacrilegio. Guarda, piuttosto, curioso e lungimirante, alle nuove possibilità espressive offerte a una tal partitura suonata per la prima volta nel 1855. Ne riconosce il pregio, il valore aggiunto e se ne fa garante.
Un progetto artistico condiviso e riconosciuto, nuovo e identitario, caratterizza, dunque questa mise en scene de Les Vêpres Siciliennes.
Emma Dante lavora di cesello sulla decostruzione e ricostruzione del significato e significante dell’intera Opera, amalgamandola ad una narrazione di Palermo tanto personale quanto realisticamente deflagrante. I 5 atti originari de Les Vêpres Siciliennes divengono un intercapedine spazio temporale per raccontare il capoluogo dell’isola con ameno disincantato trasporto.
La Palermo narrata nel libretto di Scribe e Duveyer si tramuta da duecentesca rocca fenicia aperta sul mare, dominata dalla tirannia dei Francesi, a città d’antica gloria martoriata dalla prepotenza della malavita organizzata. La mafia avida e mai sazia del potere ottuso spaventoso e tracotante che esercita sui siciliani. Incantesimo senza fine sulla città, che trasuda vergogna.
Vergogna che nulla ha a che vedere con i fisici ignudi, di fidiana bellezza, delle statue che adornano la fontana sita in piazza Pretoria dinnanzi il palazzo municipale delle Aquile. Statue che scandalizzavano le monache benedettine di clausura allorquando si affacciavano dai tetti del loro convento dirimpetto. È invece la vergogna che attanaglia gli oppressi e li rende muti, incapaci di una reale insurrezione, omertosi.
Il primo atto si apre con la riproduzione sul palcoscenico, con tanto di zampillo d’acqua, della celebre fontana. Monumento che la vergogna ingloba e travia, mutando la soavità dei volti delle veneri e le mascelle fiere di satiri ed eroi in sembianti di minacciosa bestialità. Una vergogna impietosa che svilisce persino la tradizione antica dei Pupi, facendo delle loro scintillanti armature latta da discarica.
Una vergogna tuttavia lenita dallo strenuo ricordo, in effigi su imponenti colorati gonfaloni, degli uomini e le donne dello Stato e della cittadinanza più sana caduti nei sanguinosi attentati mafiosi della storia recente. Sfilano sulla fontana della Vergogna Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Boris Giuliano, Peppino Impastato, Libero Grassi, Piersanti Mattarella e soprattutto Paolo Borsellino con il cui volto e l’ombra dialogherà la duchessa Hélène. Il potente doppio metaforico del di lei fratello, Federico d’Austria.
In queste sottigliezze la finezza viva e teatrale che vede Verdi, maestro sempiterno, acceso e generoso, sposare le istanze di Emma Dante.
Il risultato è un continuo tuffo al cuore. Per il fil rouge poetico-drammaturgico che la regista tesse a mezzo dei ballabili (le 4 stagioni verdiane originariamente inserite al terzo atto) suddivisi lungo l’intera Opera, a conferirle una continuità d’azione quasi cinematografica che pare non arrestarne mai il divenire.
Così l’Autunno, suonato in scena da un terzetto di musici di strada: fisarmonica, clarinetto e contrabasso (rispettivamente Mascellino, Colajanni, Patti) alla fine del primo atto. Musica verdiana che su questi strumenti popolari suona quasi fosse una variazione su spartito di Nino Rota. La fontana della Vergogna, ancora protagonista incontrastata della scena, viene oltraggiata dagli scagnozzi dei Boss, che ne fanno vilmente un immondezzaio mentre una ballerina sulle punte (Carmen Marcuccio), danzando su linee ludiche e leggere, ne disegna come una fata l’inesorabile mesto destino.
E altresì la Primavera, con il suo gentile assolo di clarinetto, a smorzare l’eco di vendetta che sferza l’intero secondo atto. Un canonico pas de deux candido, galante e oleografico (con i danzatori Noemi Ferrante e Gaetano La Mantia), ben fuso al duetto d’amore che abbraccia languido Hélène ed Henri nascosti da una bianca rete da pesca.
Se la tarantella, pensata per far deflagrare gli eventi al secondo atto, vede il siculo folclore coreutico tradizionale dei novelli sposi scontrarsi contro il vorticare potente e aggressivo, su braccia possenti, d’un aitante break dancer.
L’Estate, lasciata all’interno del funambolico ballo in maschera in casa Montfort del III atto e nella sua integrale orchestrazione, si fa resoconto cocente della brutalità mafiosa. L’incarnazione della più bieca sopraffazione ferina, svincolata da qualsivoglia implicazione morale, mossa a prostrare un eminente prelato così come delle innocenti giovinette, ridotte a carne da macello.
Sino all’Inverno, che da marcia funebre si apre in un andante convogliando in un unico effluvio la pura devozione per Santa Rosalia all’anelata preghiera di liberazione, dal male canceroso e vergognoso delle cosche, di tutti i palermitani. Un andate che sarà la stessa Santa (una delle attrici di Emma Dante) a danzare, in un estasi morbida e dinoccolata.
La vergogna ancora, dunque, estesa e presente, che divora poco a poco ogni cosa; finanche i due stessi innamorati protagonisti dell’Opera.
La vergogna di Henri allorquando scopre d’essere figlio del Boss Montfort. La vergogna d’Hélène che sente Henri come il suo vero grande amore a dispetto dell’odio che nutre per gli atti delittuosi perpetrati dall’acerrimo nemico Montfort. Una vergogna che si impone e biascica parole che suonano d’impedimento e ostacolo ad ogni qualsivoglia possibile struggimento e sentimento.
Contro tali sentimenti in boccio il maestro di Busseto scaglia l’inestinguibile odio del ribelle siciliano Procida. Il medico migrante; l’elemosiniere della giustizia presso i popoli fuori dall’isola che si fa a sua volta carnefice implacabile dell’amore di Hélène per Henri. A cantarne il ruolo un eccelso Luca Tittoto, basso dalla pasta vocale profonda e la mirabile agilità nelle scale discendenti. Procida fa il suo ingresso in scena fluttuando a mezz’aria, su un malconcio barcone da pescatori.
A contendersi a loro volta la bontà e legittimità del proprio intimo sentire, Hélène e Guy de Montfort. Lei trascinata dall’amore per Henri, lui sospinto da un inatteso quanto insperato coinvolgimento paterno.
Due eccezionali artisti sono chiamati ad incarnare questi personaggi tra loro in netto contrasto. Da una parte Selene Zanetti, Hélène dalla vocalità acuminata e scintillante, in grado di colorare flessuosa su note altissime. Non solo entusiasmante soprano lirico di coloratura ma anche attrice di finissimo concetto, l’artista vicentina si lega perfettamente alle interazioni sceniche pensate per lei da Emma Dante. Così sulla celebre attesa aria del quinto atto “Merci, jeunes amies” canta, brillantissima, danzando mentre damine dai pullover intessuti di lucine bianche intermittenti le riempiono le braccia conserte di mazzolini di fiori come fosse la ringhiera barocca di un balcone.
Dall’altra parte, il portentoso talento vocale del baritono Mattia Olivieri nella parte di Guy de Montfort. L’avvenente artista sassolese, primeggia sulla scena in abiti che richiamano l’haute couture D&G e scuote l’udito del pubblico a mezzo di una performance canora di grande appeal. Fiati densi ed energici permeano una vocalità tonante e allo stesso tempo corposa, che si staglia nitida sul fraseggio. Si guadagna ammirati applausi a scena aperta, nell’intero atto III, condensando con grande perizia la drammaticità ardente e allo stesso tempo dolente dell’aria “au sein de la puissance, au sein de la grandeur” ad una aggraziata ondeggiante linea melodica sul cantabile “Pour moi, quelle ivresse inconnue de contempler ces traits chéris”.
Al centro di un sì pirotecnico gioco di voci si avverte purtroppo meno convincente, calante e alle volte strozzato, l’Henri del tenore Leonardo Caimi.
Les Vêpres Siciliennes, dunque, come Verdi avrebbe gradito che si rappresentasse. Grandioso, con il travolgente corale del suo grande ensemble (al terzo atto) a rifulgere su scene dorate (volutamente eccessive quasi pacchiane, come da immagine narrativa delle dimore dei Casamonica) e in un tripudio policromo di giganti teste di moro. E immerso in una bruciante immensità drammatica, sul repentino concitato finale, con la rivolta siciliana che fa veemente mattanza dei mafiosi e dei loro scagnozzi, ormai inermi e guizzanti come tonni nella rete.
Les Vêpres Siciliennes di Giuseppe Verdi ed Emma Dante, si dirà un giorno. Ovvero l’impareggiabile ideale corrispondenza di due supreme menti artistiche. Uno spettacolo in grado di farsi ricordare a lungo, entrando a pieno titolo e con somma lode nel repertorio del Teatro Massimo e negli annali di un teatro lirico sempre più proteso verso una maestrevole qualità.