Le Fenicie, grandiosa tragedia di Euripide, è tornata nel 2017 tra le pietre antiche del Teatro Greco di Siracusa. E’ un ritorno in grande stile, a ben quarantasette anni di distanza dalla sua ultima messa in scena. Era il 1968. Ciò fa del 2017 un “annus mirabilis” nella storia delle rappresentazioni classiche siracusane e de Le Fenicie l’evento immancabile di questo 53° ciclo
Si intitola Le Fenicie e riecheggia, pur involontariamente, i meravigliosi uccelli di fuoco che nella mitologia araba risorgono dalle proprie ceneri. E, infatti, il ritorno de Le Fenicie è un po’ una resurrezione al pubblico e allo scenario più noto del mondo antico. L’ultima rappresentazione di questa tragedia di Euripide risale al 1968. Al 2017 sono ben quarantasette anni d’assenza.
Le Fenicie sono le donne del coro, un gruppo di schiave sacre provenienti dall’isola Fenicia. Pellegrine dirette al santuario di Apollo a Delfi. Una compagine umana, ristretta e compatta, di mistiche esuli, testimoni del tutto casuali dei tragici eventi che si compiono nella casa di Edipo tra le mura della città di Tebe.
Sono l’incarnazione euripidea dell’ascolto mesto e paziente, oltreché della saggezza e del discernimento. Protagoniste senza volerlo e personaggi inermi, che il regista piemontese Valerio Binasco vuole in scena con i volti coperti da maschere in espressioni indisponenti e contrite.
Ad esse Binasco dona un’unica voce, quella gutturale e dal marcato accento russo di Simonetta Cartia, accompagnata dalle note gravi di un organo suonato in scena da Eugenia Tamburi. Schiave idolatrate, con tante cose da dire ma spesso ammutolite queste Fenicie, come le donne costrette alla prostituzione della dignità, dei sensi e del corpo ai giorni nostri.
Nel testo di Euripide Le Fenicie, fungono da cornice preziosa e ornamentale alla tragica e nota saga familiare di Edipo e Giocasta. Una saga, che viene sviscerata in ogni suo aspetto e traslata dal regista nei termini di una soap opera anni ’80. Una specie di Beautiful, intricata e sconvolgente, fluttuante su un lago di sangue rosso carminio sul quale svetta un tronco d’albero spoglio e bianchissimo, come ossa inanellate. In questa forma, la tragedia trova una sua intelligente soluzione scenica senza che ne vengano compromesse la profonda essenza letteraria, l’afflato artistico e il piglio filosofico. Si raggiunge tra gli elementi un equilibrio perfetto e puro, che punta verso l’alto. Questa l’asso nella manica di Binasco.
La tragedia si presenta verbosa, stracolma di personaggi e pregna di viscerali emozioni. Mantiene sui sensi del pubblico una presa protoromantica. E Binasco chiede ai suoi attori di ricamarvi sopra onde creare empatia. Si genera la catarsi postmoderna dell’umana sventura e delle passioni infauste e fraudolente, si piange e ci si appassiona. La riuscita è perfetta e non deborda nel patetico. La tragedia si gusta senza fatica.
Isa Danieli, nel ruolo della regina Giocasta, apre con un lungo monologo la messa in scena. Lei madre e moglie di Edipo, ovvero oggetto innocente e inconscio di incesti e maledizioni, è vestita di un lungo e luttuoso abito nero. Il suo recitare è un urlo al vento, tra i singhiozzi di un pianto dirotto. Un discorso sonoro e vibrante tra una donna e il suo male di vivere, che le aleggia sul capo e che già dalla genesi del mito si va compiendo senza che ella possa controbattere. Giocasta è la personificazione della tragedia!
Ad affiancarla la figlia Antigone (una eterea Giordana Faggiano). La giovane principessa, figlia dell’infausto incesto tra Giocasta e il figlio Edipo, è una sorta di adolescente vestita come la pop star Madonna nei primi anni di carriera (gonna a campana e giubbotto di pelle borchiato). Una fanciulla leggera, che sogna di volare – aprendo le braccia come la Rose di Titanic – dall’amato fratello spodestato Polinice, onde riabbracciarlo. Sogna la pace familiare la fanciulla; come una bimba atterrita da due fratelli che litigano per un giocattolo. Ma sarà proprio lei che, nella funesta vicenda narrata da Euripide, maturerà in fretta. Antigone diverrà un punto fermo per il padre Edipo, allorché questi deciderà di esiliarsi volontariamente. Lo accompagnerà in quel di Colono (località peraltro suggerita dalle stesse donne Fenicie) saggiamente come fosse tramutata in un bastone. Diverrà inoltre un simbolo d’emancipazione psicologico affettiva dalle lusinghe minacciose del potere e dalle sue prepotenze.
I figli, i contendenti al trono (essendo in due si erano concessi 7 anni di regno l’uno, ma Eteocle deliberatamente viene meno al patto), guidati da un triste fato in una guerra fratricida meritano un’analisi a parte.
Eteocle, l’attore Guido Caprino, è vestito come la rock star Piero Pelù, chiodo di pelle nera e catene d’oro al collo. Il suo aspetto torvo, empio e massiccio si accompagna ad una recitazione perentoria e scevra di emozioni sincere. Eteocle si fa forte della potenza militare del regno onde tradire i patti fatti con Polinice, si tramuta dunque in un golpista. Eteocle come Augusto Pinochet e non appare un caso se le milizie ai suoi comandi, nelle uniformi e nel trattare i prigionieri, ricordino esattamente quelle reali del noto dittatore cileno.
A fargli da contrappunto il fratello Polinice, nella resa iperbolica e piena di sentimento dell’attore Gianmaria Martini. Martini è biondo e luminoso, flessuoso ed esile, la sua figura contrasta con quella dell’aitante e bruno Caprino. Il viso fiero ma contratto nel dolore e nella disperazione, le orbite incavate e gli occhi rossi, il torso sacrificale. È il fratello buono, desideroso di riconciliazione, e dunque un uomo vinto e privato della patria prima e dell’onore post mortem. Un personaggio regale ma dalla fragilità esibita, di cui è facile focalizzare la ragionevolezza dell’agire. Eteocle si giunge ad odiarlo, Polinice invece lo si ammira. Il carisma attoriale di Martini, porta lo spettatore ad immedesimarsi moltissimo in Polinice (esattamente ciò che è accaduto a chi scrive).
Suspense allo stato puro, allorquando Giocasta tenterà di ricongiungere i figli nella pace e nella fratellanza, tentativo che fallisce miseramente. Picco drammatico, insuperato nell’intera tragedia, il brutale pestaggio a cui Eteocle sottopone Polinice. Nonché la conseguente cacciata del giovane dalla città di Tebe: con le sue urla strazianti d’esule, il pianto dirotto di un figlio, la prostrazione di un fratello reietto e il disincanto di un principe deposto.
Al resto della tragedia si amalgamano i vaticini cruenti dell’indovino Tiresia. Quest’ultimo è più un vecchio barbone, arteriosclerotico e alcolizzato, che un uomo dalle visioni divine. Come dall’interpretazione roboante e sempre sulle righe che ne da Alarico Solaroli.
Si pone come sotto-testo il dramma filiale di Creonte, fratello di Giocasta. La morte votiva di Meneceo, figlio minore di Creonte, è consigliata da Tiresia onde placare gli Dei e salvare Tebe dalla minaccia dell’imminente assalto degli argivi guidati da Polinice. Creonte farebbe qualsiasi cosa pur di fermare il nipote più giovane e garantirsi i rinnovati favori del nipote più anziano. L’attore Michele Di Mauro conferisce alla figura di Creonte subdola possanza politica e ferree convinzioni; vi si ravvisa da subito il prototipo di tiranno già conosciuto nella tragedia Antigone di Sofocle. Tuttavia alla richiesta di morte del giovane Meneceo le certezze dell’uomo crollano.
Creonte consiglierà al ragazzo di fuggire, ma il giovanotto propenderà per la salvaguardia della patria e si suiciderà. Nella morte di Meneceo –un compìto Matteo Francomanno – e sul rifiuto nell’offrire alle spoglie di Polinice una degna sepoltura così come invece concesso ad Eteocle, il primo step nella scalata al serto di sangue di re Creonte.
In un duello al ultimo sangue si daranno morte vicendevole Eteocle e Polinice. Giocasta si trafiggerà il cranio con la punta appuntita di una lancia. Edipo –il ruggente attore giapponese Yamanuchi Hal-, anziano cieco e ormai estenuato da cotanto scempio parlerà, infondo alla tragedia, con una ragionevolezza profonda che sembra scaturire da una densa coscienza del fato e del cuore.
Nel divenire della tragedia, anche un momento di lievità inaspettata. L’araldo Massimo Cagnina con il suo “mi dispiace” dalla cantilena sicula, a chiudere i lunghi monologhi resoconto di avvenimenti colmi di mestizia. Quell’intercalare, ovviamente estraneo al testo originale, diviene però una sorta di mantra tra gli spettatori. Attira risate ironiche che un po’ sviano il pubblico dall’intensa ed ineluttabile drammaticità degli eventi. Una peculiarità della rappresentazione, da molti criticata aspramente, ma che si potrebbe ben descrivere nei termini d’un infiorettatura che stride volutamente e pone ancor più in risalto la bellezza sventurata de Le Fenicie.
A concludere lo spettacolo e accompagnare gli inchini degli attori sugli scroscianti applausi finali del pubblico, la song Heroes di David Bowie. Una sorta di sigla da soap opera; più ancora un omaggio doveroso alla ineludibile forza eroica dei personaggi Euripidei, tutti nessuno escluso.
Repliche fino a sabato 24 Giugno, per acquistare i biglietti clicca qui .