Come una carezza delicata e gentile si assapora, oggi come trent’anni fa, le Cirque Invisible di Jean-Baptiste Thierrée e Victoria Chaplin. Repliche ancora fino al 14 gennaio presso il Teatro Biondo di Palermo.
Non sta certamente a me recensire uno spettacolo come Le Cirque Invisible. Figlio del desiderio di circo dell’attore Jean-Baptiste Thierrée, fu dapprima Le Cirque Imaginaire. Nel 1990, con la compagna di sempre Victoria Chaplin (figlia del mitico Charlot) divenne Le Cirque Invisible, sognante reazione d’artista alla brutalità della guerra del golfo. Lo spettacolo ha viaggiato per il mondo evolvendosi e modificandosi. Un costante happening teatrale dagli ineluttabili connotati storici (vista la longevità). Uno spettacolo mille volte fruito, chissà quante volte recensito. Una produzione che si nutre della bellezza gaia della vita, e dello stupore che sa provocare.
Nessun giudizio di valore, dunque. Mi limiterò a raccontare, come una fiaba, questo godibilissimo Le Cirque Invisible. Luogo scenico dell’illusionismo ilare e innocente, del funambolismo etereo, del trasformismo lirico, della fantasia pura e scintillante.
Si fa fatica a pensare Jean-Baptiste Thierrée come una persona comune. Quest’uomo alto, dai lunghi capelli bianchi, sembra vivere una condizione di grazia perenne che lo rende amabile.
Il suo è un mondo teatrale fulgido di poesia, che egli attraversa con briosa levità. Il modo di fare teatro è un gioco soave di immaginifica dettagliata gestualità. La sua passione primaria: una coinvolgente simpatica tenerezza. Thierrée è l’elfo allegro di un Natale sempiterno. L’amico fatato di dolcissimi coniglietti bianchi, il direttore d’una orchestra di paperi e papere. Il solo capace di far tintinnare, al suono di un triangolo, le bolle di sapone scoppiate con un martelletto. E’ il cocchiere a strisce bianche e nere di una zebra gonfiabile, restia alla magia del deambulare da sola. Un bimbo tra i bimbi, portento di vivacità ed estro.
La sua compagna Victoria Chaplin, al contrario, è una leggiadra figura armonica e acrobatica. Sempre muta, ella cambia forma e sembianze. Il suo silenzio si fa scena. S’ingrandisce e rimpicciolisce, come una novella Alice nel paese delle meraviglie. Si raccoglie dentro una scatola, lasciando fuori solo le esili lunghe braccia. Si dilata, tra una scenografia ed un costume medievaleggiante, assumendo le sembianze di un gigante. Si riveste di bicchieri e stoviglie in acciaio, per poi suonarsi -flessuoso corpo sonoro – con una bacchetta da percussioni.
Victoria Chaplin nelle vesti sontuose di Maria Antonietta, regina di Francia, si tramuta in un elegante cavallo da cocchio bardato a festa. Dai purpurei abiti di una dama cinese, la Chaplin cambia connotati divenendo una magnifica gru grigia coronata.
Una fantasmagoria di biciclette e velocipidi, impensabili e pur reali cloni ed ibridi dell’universo su ruote e a pedali, chiude Le Cirque Invisible.
Ci vogliono gli occhi dell’infanzia per lasciarsi rapire da cotanta creativa leggerezza. Per lasciarsi andare alla delizia, quella stessa che mi ha pervaso, è necessario non chiedersi “perché”. I bambini, che affollavano la sala, ridevano e applaudivano a dispetto di un certo grigio pubblico di concetto. Il cerchio, dunque, si è fatto quadrato; tra le risa di cuore dei più, il miracolo de Le Cirque Invisible si è verificato nuovamente.