La Fame e la Peste è un testo bipolare del giornalista, scrittore e drammaturgo Salvo Licata; un sentiero che s’inerpica allegro e tortuoso e poi sfocia nel mitico. Terreno fertile per una messa in scena multisfaccettata, così come nella visione duale e convergente del regista Luca D’Angelo e della co-produttrice Costanza Licata, attualmente al teatro Biondo Stabile di Palermo.
La Fame, che apre lo spettacolo, è una miniatura buffa dal vorace cesello malinconico. Due i protagonisti, i miserrimi scultori Ciociò e Prurè, confinati in una soffitta bohemien, immobili nella morsa della povertà e di una fame implacabile. Il loro puro è semplice respirare è cadenzato da un’intrecciarsi e disciogliersi continuo di budella, ogni pensiero e fantasia si riempie di sospirate leccornie e queste si materializzano sotto forma di vorticose filastrocche, giocose canzonette e incalzanti cunti, che nel loro effimero rifulgere sembrano in qualche modo appagarli. Il loro è un sopravvivere al mondo e al tempo, abbuffandosene con ciclica perversione, senza consentirsi il favore del reagire. In questo paradossale carillon si propaga, tutto d’un tratto, l’incognita di un attesa dall’eco beckettiano: la zia di Prurè, Clotilde, che si pavoneggia a grande cantante annuncia via telegramma il suo arrivo in città per un provino. Il sopraggiungere della dama non licenzia il vecchio stare al mondo, bensì monta l’equivoco e fa ribollire le arguzie. La fame diviene fonte primaria di ispirazione, si esalta quale unica pulsione rimasta e si condensa in una perdita dei sensi che è insieme rigor mortis e catarsi. Alla provvidenziale arte di arrangiarsi, che colora d’ocra di Sicilia il finale, si deve un gaio companatico – una carriola di maccheroni con le acciughe – da gustare a suon di musica, strizzando l’occhio al Totò, Felice Sciosciammocca (finalmente saziato da chili e chili di spaghetti al sugo) in quel di Miseria e Nobiltà.
Il secondo atto, ovvero La Peste è un tetro incubo medioevale che scava furente negli abissi della psiche. Il terribile morbo serpeggia tra le fila di un’umanità panormita dolente e nervosa, appesa ad un esile filo di fede e di speranza. Il contagio cavalca furioso e pellegrino, non risparmiando nè plebei nè nobili; si fa beffe delle regie norme igenico-sanitarie, ne elude i divieti. La malattia fa la sua apparizione tra merci ghiotte e pregiate, salvo poi distruggere i piaceri e finanche gli oneri, assume forme demoniache fomentando fobie, odi irrazionali e disillusioni. La Lacrimosa di Mozart accompagna un corteo funebre d’anime in pena nel ventre di una Palermo ormai ridotta a grande lazzaretto. La pestilenza si addensa inclemente e detta le sue leggi, si addentra poi nella nebbia del tempo su una zattera malconcia -d’infernale dantesca memoria- traghettando con sé lo spasimo, la pena ed un emaciato coro tenebroso al cui periodare antiquato e forbito si sovrappone una deriva sgomenta sul male dell’oggi. Colma l’occhio un richiamo moderno dal lugubre tratto cinematografico: un’adunca e sinistra megera intenta ad attraversare su una barcaccia, nella notte profonda, le acque oscure di un fossato, con l’intento unico di recare al prossimo un suo feroce dono di morte.
Dalla Fame alla Peste si profila una radice scarlatta che lega visivamente ed esteticamente i due atti, creando tra loro una certa continuità e riuscendo a far convergere intenti e lividi dei due testi. E’ il triangolo rosso della scala, che trova il suo apice nel teatralissimo epilogo della serata.
Magnifici gli interpreti sulla scena. Caleidoscopico e pirotecnico il cuntaro e attore Salvo Piparo; costretto in un teatro lontano dal suo ma lodevole nell’esservisi immedesimato con delicato estro e asservito con generoso talento Gino Carista ; favolosa oltre ogni dire la camaleontica Stefania Blandeburgo. A Mario Pupella un sentito applauso per la sua arte ancora così traboccante d’ardimento e fremente emozione, nel suo commosso ritorno al Biondo dopo 45 anni di assenza. A sperimentare sulla dualità del testo oltreché dare vigore alla tenuta attoriale -dirigendone le vitali minuzie e orientandone le superbe coralità- il regista Luca D’Angelo. Le luci, che hanno dato vita a burrascosi stati d’animo celati da secoli immemori, sono di Davide Riili. Vero collante e colonna portante dell’operazione è stata però l’eclettica Costanza Licata: attrice, ottima cantante dalla voce sopranile, compositrice di musiche e canzoni, eseguite peraltro con raffinata enfasi dalla pianista e percussionista Irene Maria Salerno. La Licata è stata la perfetta bambina, a cui Ciociò e Prurè hanno rapito la gatta per mangiarsela, e una ideale donna che, emaciata e lirica, erra tra la mestizia della peste. Un’artista a tutto tondo che ha creato un vero evento teatrale palermitano, atto a ricordare la maestria insieme carezzevole e intelligente di papà Salvo.