Debutta all’alba presso il teatro greco di Segesta, l’autodifesa di Ismene per la regia di Cinzia Maccagnano. La principessa Tebana, sfuggita al destino torvo e oscuro del suo casato, apre il cuore chiedendo di non essere dimenticata.
C‘è Edipo, l’inconsapevole incestuoso, e c’è Giocasta, madre e moglie dello sventurato, e prima di loro, c’è stato Laio, re malcapitato. Ci sono stati Eteocle e Polinice, fratricidi per cause di potere, e poi lei, la principessa coraggiosa e pietosa, Antigone con il suo fidanzato e promesso sposo Emone. Una stirpe intera trascinata da una piena di sangue tra le crudeltà disumane d’un lutto infinito. Tutti costoro hanno lasciato la terra e piangono tra i sentieri dell’Ade o, come Edipo, svaniscono nella bruma celeste del bosco sacro alle Eumenidi. Tutti, eccetto una, la principessa Ismene.
Ismene resta sulla terra, sopravvive e la drammaturga Flavia Gallo le restituisce un’opportunità, quella di narrarsi, svelarsi, difendersi. Un autodifesa impropria, ad analizzarla meglio, poiché Ismene non è colpevole di alcun che. È innocente. Le sue parole sono oblique, non dirette come quelle della sorella Antigone, così come splendidamente sottolineato dalla Gallo.
Lo spunto della parola getta le basi per l’intera drammaturgia. Gallo ne fa segno, perfetto, di potere e di scontro, inflessibile e permeante. Sono le parole degli altri però, non quelle di Ismene. Le parole della principessa sono diplomatiche, espressione del suo buon senso, della modestia e della prudenza.
Parole di pace e di compromesso, che in un mondo tanto violento suonano come le parole d’una irrisolta, senza risolutezza alcuna. Questa la colpa di Ismene, perpetrata con infamia dal mito e dalla tragedia ma lontana anni luce dalla sua essenza recondita. Dopotutto non v’è dolo ove si cerca d’evitar violenze e brutture, dove si ragiona con sentimenti di concordia e di protezione per sé e per il prossimo.
Ismene permane nella vita, è la sopravvissuta. La regia di Cinzia Maccagnano fa della principessa il tramite privilegiato ed il testimone cardine, rendendo altresì il suo percorso esistenziale un fluire rapido e tortuoso, di simulacri e similitudini, come un fiume limpido che si gonfi tra le rapide. Il palazzo cadente dove ella si nasconde insieme allo zio Creonte, l’ultimo tiranno tebano sprofondato tra solitudini, amarezze e dolori, non è altro che la metafora vivida del suo ultimo baratro.
Il mondo tragico di Ismene crolla, tutti i nomi prima del suo sono eretti sull’altare delle gloria. Ma nonostante ciò ella risplende e rinasce, oltre il suo nome, la sua genesi maledetta e ogni oblio. Come il nuovo giorno a cui la principessa rivolge lo sguardo e piegando il capo, rende omaggio.
L’attrice tragica Luna Marongiu incarna una Ismene che ha smarrito, con gli affetti, la sua soavità. Una giovane che si agita, riversa e comprime come una bambola dallo sguardo sperduto, ferino e svuotato. Una ragazza dall’incarnato livido ed i capelli biondi ricadenti sul volto, una non più fanciulla non ancora anziana, dalla voce rotta e roca, rauca come avesse urlato tutte le sue lacrime.
Ismene che solo si intenerisce al ricordo della sua passata clemenza di figlia devota, allorquando per il padre Edipo graziato dalle Eumenidi ha danzato leggiadra in abiti cerulei e sfrangiati da sacerdotessa orientale, la chansons des vieux amants di Jaques Brel. Suo padre, l’unico uomo a cui il fato le ha consentito di consegnare il suo amore.
L’interpretazione di Marongiu è partecipata, viscerale, concentrica, intrisa di coscienza e conoscenza del personaggio. Recitazione e regia collimano nello scorrere fisico-spaziale (delle danze fluide con le braccia morbide da ali di cigno e le mani sbattute al petto come un mea culpa) e materico (dei costumi mutanti e degli oggetti di scena schiantati e avviluppati) del personaggio dipinto. Peccato la performance sia stata funestata da un microfono (l’inconveniente tecnico!) malfunzionante e gracchiante.
Cinzia Maccagnano consegna Ismene ad un pubblico che l’ha dimenticata, lo fa con uno spettacolo gioiello, ispirato e composito, degno delle sue qualità registiche sempre in divenire. Rende a Ismene i dovuti onori, ne tramanda le gesta, gli umori e le emozioni e afferma che sì, a trascolorare nel mito può essere anche lei. Che il suo nome non per forza deve essere cancellato, ed ha pari dignità di quello d’Antigone. Nel suo nome c’è il mito di colei che, saltato il muro della morte, con la vita testimonia che il fato può piegarsi, non essere ineluttabile. Ismene, consegnata all’oggi.