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Il Marat Sade dottrinale di Claudio Gioè al Biondo di Palermo

Marat Sade, testo di Peter Weiss, regia di Claudio Gioè (che ne è anche interprete) per una importante produzione siglata teatro Biondo.

Marat SadeL’assunto è storico. Manicomio di Charenton 1808, piena epoca Napoleonica, il Marchese De Sade illustre letterato ne è ospite coatto. Il direttore della struttura monsieur Coulmier, approcciando le più illuminate e avanguardiste forme di psicoterapia, concede al De Sade di comporre dei drammi. Essi potranno esser messi in scena, per un selezionatissimo pubblico, in un  teatrino di 200 posti, da alcuni internati, compagni di sventura del Marchese. Da tali comprovati accadimenti lo spunto drammaturgico per il Marat Sade, elaborato nel 1963 da Peter Weiss.

Portato per la prima volta in scena allo Shiller Theater di Berlino nel 1964. La riduzione cinematografica del dramma, firmata da Peter Brook nel 1967, vigilia di quel ’68 delle contestazioni che muterà radicalmente l’assetto socio-politico-culturale del mondo, ne segna la definitiva consacrazione.

Marat Sade ovvero dell’implacabile contrapposizione, nonché strenua confutazione, di due inconciliabili visioni del mondo fattesi tesi dagli echi universali. Da una parte Jean-Paul Marat, “l’amico del popolo”. Immerso nella vivida quanto incrollabile certezza che un mondo nuovo, libero egualitario e fraterno, è realizzabile solo nel solco della più feroce ed ininterrotta delle azioni rivoluzionarie. Un giacobino puro, che spinge sul concetto di sovranità del popolo. Un proto-marxista. Fa da controcanto il Marchese de Sade, aristocratico, letterato e libertino, pregno del proprio esacerbato individualismo soggettivismo. Prototipo dell’intellettuale moderno, per il quale l’intero universo è la rappresentazione perfetta della propria individuale coscienza. E da cui deriva una totale-universale inversione ragionativa, per cui tutto ciò che comunemente si crede bene diventa male e viceversa.

Marat Sade, stelle lontane e contrapposte, che Peter Weiss costringe insieme. Dentro uno stesso titolo,annullandosi reciprocamente, in un’irrisolvibile antitesi. Due argomentazioni in furente opposizione che la regia di Claudio Gioé, nella produzione panormita, sottolinea, ricalca. Risolvendone l’impatto in un quanto mai didascalico e didattico bien fait teatrale

Ben più interessante, da un punto di vista performativo, l’ambientazione che caratterizza l’intero dramma ovvero il manicomio ed il suo piccolo teatro. Entrambi non-luoghi, di passaggio e di prigionia, in cui il tempo fluttua senza recedere ne avanzare. Bolla a se stante ove i tumulti socio politici d’un recente passato baluginano come faMarat Sadentasmi senza riposo, tra il clangore impietoso delle ghigliottine e un nuovo rabbioso proclama anticlericale del Marat. Nonché cantuccio concreto dell’assolutismo solipsistico, nero e indomabile, del De Sade. A tali dimensioni, con passo lungo e infestante, si impone la coeva realtà imperiale napoleonica, garantista di valori rivoluzionari benché di stampo imperialista. L’affermazione e la sua negazione, tra  coccarde ed il celebre ritratto del valoroso generale imperatore corso, di sbieco.

Claudio Gioé incarna un Marchese De Sade potente e virile, del proprio granitico pensare; tra la sconsideratezza del nutrire amor patrio, l’indifferenza della natura per ciò che è la morte del genere umano e sulla rivoluzione quale universale grande fornicazione. Un uomo dall’incedere e le pose eleganti, suadenti e distaccate, quale supremo e nobile possidente di quella terra di mezzo, ricettacolo di turbe psichiche e follia. Protagonista, fieramente impenitente, della propria poetica sadica ed erotica, che esalti dell’individuo il giudizio autonomo, l’insindacabile personalismo. Le frustate, sul corpo tonico e luminoso di Gioé, schioccanti eppur solo vagheggiate, pervasive d’un piacere che del personaggio descrivono efficacemente il recondito e l’oltre.

Marat SadeAnimoso e stentoreo, nella sua vocalità aspra e cinerina, il Jean Paul Marat di Filippo Luna. Ottima la prova di Giulia Andò, nel doppio ruolo, delicato ed iroso, della depresso narcolettica cui De Sade affida il ruolo della assassina del Marat, Charlotte Corday. Sguardo truce, perso nel vuoto quanto  minaccioso ed una postura uncinata; la cifra interpretativa di Maurizio Bologna nel ruolo di Jacques Roux, detto “il Prete Rosso”. Personaggi che funzionano a dovere, come ingranaggi d’un pulsante tableaux vivants. 

Madame Corday, la virgo Intacta calata, indomita, nell’azione e nella brutalità. Vendicatrice auto-impostaMarat Sade, di quel Marat percepito quale boia, personificazione del terrore e traditore dei comuni valori rivoluzionari. Jean-Paul Marat, disteso tra asciugamani candidi, nella vasca di rame ove prende i bagni curativi per la dermatite seborroica che lo affligge. Mimetico, al celebre dipinto del David che ne ritrae la dipartita. E attanagliato dalle formule, articolate quanto estreme, dei suoi proclami, delle sue radicali teorizzazioni di Montagnardo. Così il Jacques Roux tra le fila d’estrema sinistra degli Enragés (“arrabbiati”), ingabbiato in una camicia di forza in quanto precursore dell’ideale anarchico. Nell’economia della mise en scène, da manuale di storia moderna.

A circoscrivere e completare i due atti le voci narranti, collante dell’impalpabile e del materico insito all’azione. Prima tra tutti la banditrice in livrea napoleonica, reggente una picca al cui apice sono sistemati i nastri del nascente tricolore francese. Essenza stessa dell’altrove e adesso, generata con piglio instancabile,guizzante ed energico da Silvia Ajelli. In secondo luogo i 4 cantori, Kokol, Polpach, Cucurucu e Rossignol (Della Monica, Dodaro, Pullara, Di Cara). Fautori di quella prosa, musicata e coreutica, monodica e corale, in grado di sommare al generale periodare dottrinale, acute intermittenze d’arte.

Articolato, culturalmente denso e macchinoso benché di impeccabile fattura, Il Marat Sade non può dirsi spettacolo adatto ad un grande pubblico. Repliche del 6,7,e 8 Marzo sospese in ottemperanza al D.P.C.M del 4 Marzo 2020 riguardanti le misure di contenimento e contrasto sul territorio nazionale al virus COVID-19.

Fotografie di Rosellina Garbo, per il Teatro Biondo.

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Enrico Rosolino

Enrico Rosolino apre il suo cuore al mondo delle arti alla tenera età di 2 anni, allorquando assiste alla proiezione cinematografica del lungometraggio animato di Walt Disney, Biancaneve e i sette nani. Ha inizio così un lungo percorso di scoperta e apprendimento nel variegato e sfaccettato mondo delle arti. Da piccolissimo si appassiona alla recitazione. Negli studi pone molta enfasi e impegno nelle materie umanistiche e, dunque, sceglie un liceo Classico. Durante l'adolescenza si diletta nella lettura ed interpretazione -a voce alta- dei classici greci. A 15 anni si avvicina concretamente al mondo della danza. Prende lezioni di balletto classico per 12 anni, e ad anni alterni segue dei corsi di danza moderna e contemporanea. L'arte coreutica diviene la sua più grande passione e territorio prolifico di ricerca. Si laurea allo STAMS di Palermo, e si specializza al DAMS di Bologna. Nel capoluogo emiliano affina e porta a più completa maturazione le sue conoscenze e il suo senso estetico e critico d'ambito teatrale. Viaggia molto, visita Parigi, New York, Londra, Barcellona, Copenaghen, Boston, Atene e molte altre città del mondo godendo di un approccio diretto e sentimentale con le di loro bellezze artistiche e culturali. Vive attualmente a Palermo e coltiva moltissimi interessi nei più svariati contesti. Da giugno del 2021 è iscritto nell'elenco dei giornalisti pubblicisti presso l'Ordine dei Giornalisti di Sicilia, per Verve si occuperà della rubrica dedicata al Teatro, alla cultura, e agli eventi dal vivo.

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