C’era una volta Barbablù… formula puerile e ipocrita, sarebbe meglio cambiarla in un ben più centrato e realistico Barbablù c’è ancora.
In principio fu Gilles de Montmorency-Laval conte de Rais, detto il Barbablù. Combattente al seguito di Giovanna D’Arco e maresciallo di Francia ma allo stesso tempo uomo perverso e crudele dedito all’occultismo e all’alchimia. Condannato alla morte per impiccagione nell’Ottobre del 1440. Su di lui l’accusa di aver torturato e ucciso (rituale propiziatorio per il demone Barron) 140 tra bambini e adolescenti.
Nel seicento il favolista francese Charles Perrault ne traslitterò le gesta nel personaggio temibile d’una tra le sue più ansiogene e angosciose fiabe. Da infanticida lo mutò in uxoricida, suggellando per sempre l’archetipo del maschio predatore insaziabile, sopraffattore ignobilmente geloso, iracondo violento e feroce.
Il Barbablù di Perrault scalzò, tra le pagine immaginifiche del tempo delle fate, Cenerentola, Cappuccetto Rosso ed il Gatto con gli Stivali. Su lui si addensò il mito nero del serial killer consegnandone, l’imperituro incubo, alla memoria delle generazioni a venire.
Barbablù zigzaga tra storia e fiaba, sconfina ai bordi del palco e prende a picconate la quarta parte raccontandosi, fremente, sul binario parallelo della contemporaneità. Il fosco personaggio leggendario dalla psiche contorta e corrotta ed il carattere deforme, crudele e prevaricatore riversa la sua ombra nei geni dell’uomo odierno. Genera il femminicida!
Dunque, c’era una volta Barbablù e c’è ancora. L’assunto suona ben più nitido e diretto, descrivendo in pochi tratti la drammaturgia acuta che su questo truce protagonista costruisce Costanza DiQuattro.
Barbablù esprime se stesso in una monodia priva di requie e di remissione di peccato. Una lunga e spaventosa confessione che dipinge, vivida, la galleria dei propri orrori. Sul palcoscenico una cupa segreta, gravida delle effigi e dei segni, ora dolenti, ora rabbiosi, ora rassegnati delle sue 7 spose.
Sette vite innocenti strappate brutalmente al mondo. Sette fiori recisi, Rosa, Viola, Margherita, Gelsomina, Dalia, Iris ed Erica, dalla mano dispotica e atroce di un solo uomo. Sette barbare manifestazioni d’aggressività e furia che divengono ciclo vizioso.
7 donne colpevoli secondo Barbablù, d’una qualsiasi delle loro stesse peculiarità, delle loro doti, dei loro bisogni, delle loro stesse essenze. Vittime su cui Barbablù scarica il proprio irragionevole e terrificante livore cercandovi, in odor d’una giustizia personalistica e scellerata, una qualche giustificazione, un perché.
Ma può esistere un perché al male? È la domanda insoluta che echeggia nelle parole, le ultime, delle vittime di Barbablù e a cui l’orrendo carnefice fornisce risposte organiche al suo odio, alle sue abiette azioni. Risposte calzanti nell’ottica impari d’un maschilismo disanimato e smanioso d’una qualche autodeterminazione che ne istituzionalizzi intenti ed inumani risultati.
Sino all’ultimo capitolo, ben noto al mondo, ove Primula l’ottava moglie si lascia andare alla curiosità dello stanzino nel sottoscala. Alla tentazione di quella chiavetta d’oro che si macchia del sangue fetido della macabra collezione di teste e teschi, appartenute alle 7 sfortunate spose precedenti. Alla furia di Barbablù ancora una volta pronta a scatenarsi forte della disobbedienza indotta dalla muliebre curiosità, arrestata soltanto dalla prontezza dei fratelli della giovane, uno speculare necessario luminoso contrario.
«Volevo punirle, educarle, salvarle da loro stesse» si lascia sfuggire Barbablù, con l’agghiacciante sincerità di chi non conosce altro che la propria misera verità.
Il conte Barbablù si incarna nel corpo solido e nella vocalità possente e stentorea di Mario Incudine. Lo sguardo allucinato, grottesco, dalle pupille spinte fuori dalle orbite. Le pose imperanti e allo stesso tempo discinte e minacciose. Il mostro della fiaba che trasuda realismo, nell’espressività altalenante dei suoi più spietati sentimenti. Il furore che si amplifica, cresce d’intensità tra le spire impetuose di musiche tonanti, stridenti e acuminate (eseguite dal vivo da un ombra alle spalle di Barbablù, il polistrumentista Antonio Vasta). Ed esplode in canti veementi, profondi, slanciati nel solco di una atroce suggestività.
Barbablù cambia spesso d’abito, passa con disinvoltura dalla corazza alla gorgiera elisabettiana, dal farsetto riccamente ornato alla redingote dai bottoni dorati, sino ai lunghi cappotti di pelle nere e alle giacche formali del XXI secolo. Ma è un mero adattamento estetico, una farsa senza costrutto, che non smuove la sostanza. La linea drammaturgica tangente a quella registica, risoluta e perspicace messa a punto da Moni Ovadia.
Del conte Gilles de Montmorency-Laval, inumato nella cattedrale di Nantes, restano misere spoglie sfaldate, di Barbablù permane la letteratura in tutta la sua indomata scelleratezza.
Sulla scena resta un volto torvo, dalla barba blu elettrico che si scioglie e dispare come vernice, un artefatto umano su cui calcificare sempiterno un tetro mito. E sì, fisso, sinistro, uno sguardo sul farsi e disfarsi dinamico del nostro attuale quotidiano indagando nell’intimità muta di ogni maschio.
Fino a domenica 6 Marzo nella sala Strehler del Teatro Biondo di Palermo.