Il porto, la sua gente, un microcosmo soggiogato e riverso tra le avide e impietose mani della malavita organizzata. Questo l’assunto iniziale di Fronte del Porto, ardito soggetto firmato da Budd Schulberg poi divenuto il più noto film diretto Elia Kazan con protagonista Marlon Brando.
Una serie di accadimenti crudi, barbari, illegali e privi di pietà, raccolti in una inchiesta giornalistica firmata dal giornalista Malcom Johnson, poi premiata con il Premio Pultizer. Uno squarcio di luce sulle più intime, dimenticate ed oscure pieghe della società americana. Materiale forte e impattante sul quale Schulberg e Kazan costruirono, perpendicolare, una storia esemplare di redenzione personale e di riscatto d’una comunità.
Un racconto dalla manifesta volontà ascensionale, quella di Fronte del Porto, che procede dalle brutture subite passivamente al risveglio delle coscienze. Un imperituro capolavoro del realismo sociale americano di cui Alessandro Gassmann, nelle vesti di regista, raccoglie il testimone catturato dal suo incontrovertibile messaggio di libertà.
Uno studio sulla conquista della libertà e della dignità, questo è Fronte del Porto per Alessandro Gassmann. Un omaggio rispettoso all’epopea degli scaricatori di porto, contro le brutture e le sopraffazioni del più bieco e delittuoso caporalato. La paura e la disperazione, di tanti onesti, che si fa consapevolezza sociale, e barricata umana contro le prevaricazioni.
Una vicenda che, pur nella trasposizione partenopea di inizio anni ’80 approntata al testo originale da Enrico Ianniello, non smette di rimarcare la propria linea drammaturgica dal carattere universale e dalla sempre accesa attualità, che non richiede accorgimenti di sorta ma continua a reggersi solida sulle proprie gambe.
Mutano le ambientazioni ove si sviluppa l’azione: ci si ritrova catapultati tra i vicoli delle baracche di Calata Marinella, sulla Darsena Granili ed il molo Bausan e dinnanzi l’ambiziosa architettura della casa del portuale di Aldo Rossi. Il dialetto napoletano si propaga, ora canzonatorio e sfilacciato, ora spaventoso e minaccioso specialmente quando, nell’eloquio del boss, modellato sulla lingua italiana. Ma non è una scelta creativa che tocca la sostanza di un testo così iconico e diretto.
Più dell’adattamento, incide sull’economia dello spettacolo la stessa regia, permeata da una fondante idea di cinema teatralizzato.
Un accorgimento che tuffa, l’intera messa in scena, in un preminente apparato di proiezioni panoramiche sulla parete di fondo. La fisicità degli attori è dunque immersa in questo fluido divenire di frame. Le interazioni tra i protagonisti sono tutte giocate su un recitativo didascalico, quasi a commento della narrazione.
Due pareti mobili e roteanti, poi, si prestano a completare l’allestimento scenico componendosi in spazi che sembrano spesso chiudersi, ripiegarsi, implodere sui personaggi. Come accade al povero Scialatello, schiacciato tra due container carichi di Whisky. Visivamente le mani dello spietato Boss Gigino Compare (lo straordinario Ernesto Lama) che strozzano le esistenze degli indifesi lavoratori del porto.
Le scene di più acuta e partecipata intensità drammatica, si concentrano sull’ex pugile Francesco; il giovane portuale dal carattere buono e per questa ragione, nel parlato e nella gestualità, puro, trepidante ed infantile. Una prova performativa piena e convincente per l’attore Daniele Russo.
Egli all’inizio appare sedotto dai soldi facili della malavita. La morte per defenestramento del fratello di Erica, la ragazza di cui si innamora (nell’interpretazione incisiva e propulsiva di Francesca De Nicolais), però lo segna avviando un percorso di risalita. Dal recondito della sua anima sino alla deposizione giurata. Una confessione lunga, dapprima titubante in un secondo tempo veemente e dettagliata come un flusso finalmente libero da compromessi della sua rinnovata coscienza d’adulto.
Non per nulla Francesco si trova dinnanzi un microfono su un’asta obliqua, incalzato dalle domande del pubblico ministero (l’inconfondibile voce dello stesso Gassmann) seduto all’apice di uno spazio delimitato ad imbuto, con le luci alle spalle che ne restituiscono solo la sagoma in controluce. Come accadeva per i pentiti di mafia al maxi processo di Palermo, tra separé di compensato e cinte di guardie.
Francesco dopotutto è il culmine di una rivoluzione sociale. Un eroe vero, che tuttavia non cerca gloria.
E così mentre la compagine umana dei portuali, ormai rinfrancata e rigenerata, si posiziona compatta contro i malavitosi disgiunti, disorientati e in fuga, lui volta le spalle e si dirige a grandi passi verso la banchina. Non sfonda la quarta parete, ma si rende bidimensionale, dentro quell’immagine filmica che in qualche modo lo eterna.
Questo Fronte del Porto è uno spettacolo di certo ambizioso, riuscito in quanto ben rodato oltreché centrato nell’ imperativo compito di restituire, ad un pubblico attento, l’intrinseco assoluto valore libertario del suo testo.