Francesco Gabbani vince la sessantasettesima edizione del Festival di Sanremo con la sua “Occidentali’s Karma”. Commosso e incredulo s’inchina alla regina Mannoia al suo fianco sul podio, in seconda posizione
Ricordate il Kolossal Hollywoodiano di De Mille “I Dieci comandamenti“? L’epopea di un fulgido Mosè ebreo, interpretato da Charlton Heston e la sua nemesi egizia ovvero il principe/faraone Ramesse impersonato da Yul Brynner.
Sicuramente lo ricorderete. E vi chiederete, cosa c’entra il noto film con la finalissima della sessantasettesima edizione del Festival di Sanremo? Molto e nulla. Ma si sa, le considerazione personali prendono forma a partire da una qualsiasi suggestione.
Ebbene, ecco cosa è accaduto sul palco del teatro Ariston nella notte tra l’11 e il 12 febbraio, nel bel mezzo della finalissima.
La Kermesse canora si chiude con un podio, invero di grande eccellenza. Musica, corde vocali, genio, intuizione e anima in sole tre persone. Tre magnifici esseri umani, dinanzi alle telecamere onnipotenti della Rai. Fiorella Mannoia, Ermal Meta e Francesco Gabbani sono arrivati in fondo alla galleria degli specchi.
Viene conferito ad un ognuno dei tre artisti, in ordine “casuale”, un codice necessario per il televoto del pubblico a casa. La Mannoia ha il codice 01, Meta lo 02, Gabbani lo 03. La scaletta del televoto, già così, disegna un podio che in molti auspicano, con Fiorella vincitrice.
“Che sia benedetta” della Mannoia reca un testo denso di senso e significato e dalla superlativa poetica.
L’interpretazione che lei ne dà è potente, empatica. Meta, con la sua “Vietato Morire”, lavora di incisivo cantautorato e invita ad un’insubordinazione positiva e propositiva. Gabbani con “Occidentali’s Karma” si butta in un esercizio di maieutica, rivestendola di ballo e freschezza.
La Mannoia, meriterebbe la vittoria. Seduta sul trono di Sanremo ci starebbe davvero molto bene, come Liz Taylor in Cleopatra. Ma, io la vedrei benissimo anche in versione Milla Jovovich in Giovanna D’Arco, su un bianco destriero alla testa di un esercito. Non per nulla il suo nuovo bellissimo album reca il titolo Combattente.
Questa l’idea, e alla sua perfetta attuazione ci si arriva molto vicini. Se non fosse per quel desiderio di evasione prepotente che, incurante di qualsivoglia dettaglio, capovolge ogni ragione.
E così, a Ermal Meta viene dato il terzo posto. Ottimo piazzamento, non c’è che dire. Ma si è colpiti dall’impressione che lo si mandi a letto, perché s’è fatto tardi. Come la figlia maggiore del Barone Von Trapp, Liesl nel film “Tutti insieme appassionatamente”. Allorquando durante un grandioso ricevimento in casa, incoraggiata dalla tata Maria (una certa mitica Julie Andrews), chiede al padre “vorrei poter brindare insieme a voi, si?” e incassa un “No” deciso.
E siamo agli ultimi due superstiti. Jack Gabbani Dawson e Rose Mannoia DeWitt Bukater (entrambe splendide rosse), galleggiano in mezzo all’oceano sanremese dopo l’affondamento del Titanic (buona metafora della nave Kermesse partita il 7 febbraio e che, come di consueto, ha seminato “morti feriti e sopravvissuti” tra gli eccellenti cantanti suoi passeggeri e senza distinzione tra re, principi, lord, principesse o cadetti).
Carlo Conti come il granduca Monocolao (si, quello buffo della Cenerentola cartoon di Walt Disney), proclama il vincitore. E’ Francesco Gabbani! Cadono petali di rosa dal soffitto del teatro Ariston. L’imperturbabile e iper-professionale Maria De Filippi, per un attimo ha una défaillance e crede d’essere a Uomini e Donne durante la scelta di Sonia Lorenzini.
“Occidentali’s Karma“ è molto graziosa, spiritosa e fresca. Peccato che l’ascoltatore, lasciandosi trascinare dal ritmo lieto e primaverile, non si soffermi troppo sulle parole del testo. C’è la critica alla società occidentale che crede di trovare nelle discipline olistiche, spesso e volentieri affrontate con grande superficialità, la panacea ai mali della contemporaneità. Ma fatto sta, il gongolante balletto suggerito da Gabbani cattura. E che dire del danzatore vestito da orango? A Carnevale tra sfilate e feste in maschera sarà sicuramente uno tra i travestimenti più gettonati.
E andrebbe bene anche così. La Mannoia, dopotutto, è una grande signora della cultura, una donna dalle mille risorse dotata di sportività grande sensibilità e umanità. Non ha di certo nulla da dimostrare, neanche alla finalissima del Festival di Sanremo n° 67.
Ma, ineluttabilmente, eccoci tornati ai “Dieci Comandamenti“ di De Mille. Ad un frame in particolare. “Che sia benedetta” la canzone della Mannoia è l’alterego di Mosè quando, saggio e invecchiato, apostrofa il faraone Ramesse e la sua consorte Nefertari. La canzone in assoluto più bella del Festival, sfida quell’establishment umano che il televoto è andato a configurare.
C’è un faraone ovvero Francesco Gabbani, dietro la cui ascesa al potere non ci si pongono troppe domande, assiso su un trono. La sua regina, la Mannoia, pregna di regalità ma avvinta da una soddisfazione mai piena, si appoggia al bracciolo destro del trono. Questo vorrebbe il pubblico sovrano, il popolo, forse il volgo. Tuttavia, ciò che accade in mondo visione, tra Gabbani e la Mannoia ha dell’entusiasmante.
Francesco Gabbani, il faraone della serata, è sbigottito ed incredulo. Arrossisce e quasi si commuove. La regina Mannoia lo abbraccia sorridendo radiosa, e gli accarezza la schiena. A Francesco mancano le parole. Indica con il dito la Mannoia, come a specificare colei che avrebbe decisamente dovuto vincere. Poi la guarda e dal suo labiale si evince un sentito “Scusa!”. Gabbani si inginocchia, infine, ai piedi dell’illustre collega e le bacia la mano.
Il faraone capitola a Mosè. La dicotomia re e regina, plasmata dal pubblico, deflagra. L’evasione e la spensieratezza non fagocitano la sincera riflessione intima ne il fervido concetto che vi è alla base. Anzi ne riconoscono la netta superiorità e vi rendono omaggio.
La canzone della Mannoia arriva dritta al cuore. L’impavido condottiero Napoleone -Gabbani- consegna la sua spada e la resa all’eterea Desirée -Mannoia-, come Marlon Brando inginocchiato dinanzi a Jean Simmons nell’omonimo film di Henry Koster. Poi la Mannoia viene portata in trionfo da Carlo Conti, mentre a Gabbani è consegnata la palma con il leone d’oro nella gioiosa concitazione generale. Rientra tutto nella norma.
Il senso della canzone di Fiorella Mannoia, il suo messaggio e la sua enfasi comunicativa, si sedimentano e palesano in quel singolo luminoso momento di profonda stima e d’immenso affetto mostratole da Francesco Gabbani.
C’è ancora tanta umanità e riconoscenza nell’affollato universo degli artisti, oltre la gara e oltre le provvisorie invidie. Che sia Benedetta Fiorella Mannoia, capace come nessuna di ridestare il meglio di ognuno di noi con il suo cantico della vita. Namasté, Alé!