Teste di Moro, è la pièce teatrale scritta da Lavinia Pupella e Mirko Ingrassia. Il testo, dalla caratura intensa e importante, è stato ben svolto scenicamente dal regista Luca D’Angelo. Un ottimo successo per la famiglia d’arte Pupella.
Ha debuttato lo scorso 26 Aprile, al teatro Sant’Eugenio di Palermo nuova casa artistica della compagnia di Mario Pupella, Teste di Moro. Produzione ricca, ardita e dunque alquanto insolita per la realtà piccola ed autonoma di un teatro privato. Teste di Moro è un operazione teatrale corposa ed impegnativa che, tuttavia, nella sua forma ultima e concreta si è rivelata godibile, coinvolgente e riuscita.
La truce leggenda medioevale, che in Sicilia si perpetra nella lavorazione in ceramica dei noti vasi a forma di testa, è quanto mai celebre. Un’avvenente fanciulla palermitana da bene, innamoratasi d’un bellissimo uomo saraceno, si concede a lui, ma scoperto che questi ha già moglie e figli nel suo paese d’origine, perso il senno e l’onore lo decapita con una scimitarra, e fa del suo capo un vaso nel quale piantare il basilico. Materia fertile per gli attori-autori Lavinia Pupella e Mirko Ingrassia che ne hanno tratto ispirazione per un sordido dramma romantico dalla testualità sostanziosa e la trama articolata. Ne è stato forgiato una sorta di piccolo classico, poi affidato al garbo e l’intelligenza creativa del regista Luca D’Angelo.
Luca D’Angelo, con ingegno concettuale e raffinatezza, riesce a dare armonica continuità ad una progressione spazio temporale che, dilatandosi, si adatterebbe più ad un linguaggio cinematografico che scenico.
Il contesto storico è quello che vede la Sicilia dominata dagli arabi; imperversa su ogni aspetto del dramma un atmosfera coloniale ed oppressiva. Luca D’Angelo gioca scenicamente su tale peculiarità insita nel testo, ne fa impalcatura vitale della messa in scena. Attraverso pochi indovinati oggetti di scenografia, ed un’attenta composizione illuminotecnica, il regista delinea un’umanità isolana soggiogata, che ripiega nell’esoterismo, e psicologicamente si fa maliarda, cinica, violenta, prevaricatrice ed opportunista.
In seno a tale umanità si compie la parabola discendente della giovane Clotilde, una splendente e multiforme Lavinia Pupella, protagonista del dramma. Clotilde che, come richiamata al tempo nostro da una seduta spiritica, sbuca tra le pieghe del sipario e protende le braccia al pubblico come a volersi liberare da sé stessa e dalle sue colpe.
Clotilde è all’inizio una fanciulla casta e candida, romantica come principessa d’una fiaba. L’esperienza dell’amore e della carnalità col bel moro, la muteranno in una spietata e lucida belva da noir. Svilupperà un’ossessione folle, in stile Lucia di Lammermoor che l’accompagnerà nell’abisso luttuoso d’un doppio atroce finale.
Coprotagonista di grande valore è Mirko Ingrassia, il moro. Bellissimo e aitante, l’attore è in grado di avvinghiare i sensi con la sua voce vellutata e la mimica, dirompente di mascolinità e sensualità.
Numerosa la compagine d’attori coprotagonisti (tutti meritevoli) che vanno a mosaicare la vicenda centrale di sottotrame, prospettiche ma non sempre necessarie. Ricamarla di cori, parecchio suggestivi, e siparietti, conviviali e brillanti ma sopratutto utili a smorzare l’oscurità del dramma.
Di forte impatto la congiunzione astrale che si crea tra le generazioni artistiche della famiglia Pupella. Con la scena che si riempie della coreutica, leggiadra ed immedesimata, della giovane ballerina Laura Melluso, e il potente piglio tragico e grand’attoriale di Mario Pupella (nelle vesti dell’autoritario padre di Clotilde, Massimo Leonforte). Rispettivamente Nipote e Nonno.
Si auspica che lo spettacolo, andato in scena da venerdì 26 Aprile a domenica 28 Aprile 2019, possa essere presto riproposto al pubblico palermitano che tante ovazioni e apprezzamenti gli ha tributato. Fotografie di Salvo Di Marco.