Misericordia, per l’altrui triste destino. Un sentimento di tenera pietà che si fa azione ed intercessione, in circolo. Misericordia è la pietra d’angolo su cui la regista Emma Dante recupera e completa il “Castello della Zisa” atto unico tratto da “la trilogia degli occhiali” del 2011.
Un bambino problematico, Arturo, ipercinetico e affetto da ritardo mentale. Tre donne che, tra povertà e disperazione, si occupano di lui. Questa è Misericordia. Un sentimento tanto espanso quanto insondabile e sfaccettato. Misericordia che Emma Dante raccoglie a piene mai dal suo recente passato drammaturgico a restituzione e vivido completamento del suo teatro d’oggi.
In principio fu “il Castello della Zisa”, atto unico legato al trittico detto degli Occhiali, in cui il piccolo Nicola conviveva con un autismo catatonico e due pie suorine, intente a sostenerne l’inerme e sprofondata esistenza. In quell’atmosfera pallida e greve, priva d’una concreta speranza ma ricca di illusori vagheggiamenti si delineava il primo embrione drammaturgico dell’odierna Misericordia.
La miope e immobile misericordia che le due suore chiedevano per la psiche implosa e introversa di Nicola, era quella di Dio, in preghiera, sommessamente. La misericordia che questa volta la Dante intende tratteggiare è quella ricca di pathos e fautrice di empatia emanata dal piccolo Arturo e dalle sue tre mamme adottive.
La misericordia sublime provata da Nuzza, Anna e Bettina per Arturo e declinata nelle mille sfumature dell’amore pur tra la mestizia della miseria e la solitudine d’una condizione femminile sempre calpestata. Una misericordia manifesta, in cui Arturo è totalmente immerso.
Quella stessa misericordia che però non lasciava a Lucia, la mamma di Arturo, la speranza di sopravvivere, dopo il parto, al pestaggio del brutale compagno. Un falegname, soprannominato Geppetto, l’uomo di questa storia, il generatore ed il distruttore, che sconosce la misericordia.
Una misericordia potente ma tronca, perché incapace di annientare un turpe destino, tuttavia istintiva e profondissima. La misericordia di Nuzza, Anna e Bettina; restituita alla scena nelle membra infiammate ed i fiati inesauribili di tre attrici feticcio di Emma Dante: Manuela Lo Sicco, Leonarda Saffi e Italia Carroccio.
A guardarle bene, Nuzza, Anna e Bettina, possono apparire come i pezzi singoli d’uno smembrato corpo solo. Tre distinte peculiarità caratteriali di un solo individuo. La personificazione trina di una sola madre. Una ammenda all’infanzia perduta, che la misericordia stessa raccorda, circolare, e propaga: nella premurosa magnanimità da Madonna profana di Bettina, nella schietta tenerezza da buona fata di Anna, nelle reprimende d’amoroso sprone da maestra esigente di Nuzza.
In Nuzza, Anna e Bettina si vanno a sedimentare ed armonizzare gioco, dedizione e disordine. In proscenio un soave carillon che concilia il sonno di Arturo facendo di lui un manichino molle, dinoccolato e privo di volontà, una pietà semovente e sgusciante tra le braccia accorate e vigili delle tre donne. Sul fondo della scena una ludica rumorosa giostra di corpi, ombre stagliate sulla parete e vecchi cavallucci a dondolo e a rotelle che del piccolo Arturo accendono lo spirito allegro, privo di requie.
Un cerchio, dunque, che si inviluppa nella psiche lieve ed esplosiva di Arturo, nella sua motricità nervosa e vigorosa. Un caos da immondizia che il bimbo lascia prorompere con uno scroscio da cascata.
Arturo che ondeggia quando è seduto, volteggia e piroetta in lunghi ossessivi coreutici manege quando è ritto in piedi. Il bambino esile, dall’aspetto di un elfo, il naso lungo ed imponente, ed il vestitino prendisole di fimmina. L’inconsapevole fastoso complice delle notti brave, da prostitute, delle sue amate tre mamme. Su tacchi a spillo, tra cuori di lacca, belletto, lingerie scadenti e bijoux da quattro soldi.
Un Arturo complesso, impossibile, nella sua motricità loquace e infame, nei larghi gesti, nelle spaccate laterali, e nei ponti all’indietro. Eppure semplicissimo nei desideri in musica: con la pantomima caricaturale eppure così coinvolta, quasi mimetica, dei musici della banda.
L’attore e danzatore Simone Zambelli conduce il piccolo protagonista all’eccesso, elastico ed atletico, dell’espressività corporea. Performer e personaggio finiscono con il collimare in una architettura di disegno aereo e segno fisico. Sgangherato grafema (l’autonomia che Arturo, con fatica, raggiunge nel vestirsi autonomamente) e commovente iconica incisione (quando gli basterà il cenno compito di una mano, per mostrare coscienza).
La coscienza d’una misericordia che ancora una volta pretende un sacrificio. Come la morte di mamma Lucia per far nascere Arturo, così l’affidamento del bimbo da parte di Nuzza, Anna e Bettina ad una struttura specializzata che gli permetta di progredire, rinascere. Ancora un abbandono, un allontanamento, perpetrato onde dar seguito al munifico intervento della misericordia. Un nuovo cerchio che si chiude.
Ultime due repliche sabato 2 e domenica 3 aprile presso la sala grande del teatro Biondo di Palermo.