Giuseppe Verdi compose la musica di Attila che aveva appena 23 anni, e l’acceso desiderio di creare un Opera sulle ardimentose trame di questo soggetto sorse in lui dopo aver letto una, alquanto lacunosa, traduzione (ad opera del Maffei) del dramma Attila, König der Hunnen del poeta drammaturgo e predicatore tedesco Werner (che aveva a sua volta rintracciato in forma di riassunto in un edizione del De l’Allemagne di Madame de Stael). Il libretto, invece, fu affidato da Verdi a Temisocle Solera ma, a causa dei continui ritardi dello scrittore e di una sua malcelata pigrizia, venne completato da Francesco Maria Piave (suo è tutto il terzo atto). L’Opera sembra risolutamente legata a canoni tipici del melodramma di fine ‘700-primi dell’ 800, tuttavia vi si rivelano qua e là dei brillanti guizzi d’innovazione, anticipatori di un Verdi ansioso di rinnovamento. E’ questa un Opera dal deciso sottotesto politico; benché l’ambientazione sia medioevale, musica e versi sono pregni di un ideologia risorgimentale che all’epoca del suo debutto, nella Fenice di una Venezia del 1846 controllata dagli Asburgo, fecero scalpore infervorando gli animi speranzosi dei patrioti e istigando la censura regia.
L’ultima volta che il Re Unno Attila sconfinò sulle assi del palco del teatro Massimo di Palermo, ammantato della burrascosa musica di Giuseppe Verdi, era il 1975. A distanza di ben 41 anni, nella serata del 19 febbraio 2016, in una trionfale quanto attesissima Prima il temutissimo sovrano barbaro, “il flagello di Dio”, è tornato a spadroneggiare e affascinare nel tempio della lirica del capoluogo siciliano. La produzione in essere nasce dalla cooperzione dello stesso Massimo con il Teatro Comunale di Bologna e il Teatro La Fenice di Venezia e porta nella regia la firma di Daniele Abbado, figlio del compianto maestro Claudio.
L’Opera è immersa in una regia (perfettamente uniformata con luci, scenografie e costumi rispettivamente
di Gianni Carluccio e Daniela Cernigliaro ndr) dalla livida concretezza novecentesca. Il mondo di Attila, e di tutti coloro che lo circondano, sembra costretto in una scatola oscura in pietra lavica e marmi, rivestita di stoffa mimetica militare; un luogo che inganna l’occhio, se uno spiraglio di luce filtra, e confonde l’orecchio, dal momento in cui in esso riecheggiano allo stesso tempo e con il medesimo rimbombo brame di totalitarismo, tradimenti, invidie, soggettivismi e inquietudini sentimentali.
Ad interpretare il ruolo guerresco e iper-mascolino di Attila, il valentissimo e talentuoso basso-baritono uruguaiano Erwin Schrott: dotato di un voce corposa e grandemente espressiva -sempre capace di stagliarsi, limpida, sulle altre voci in scena- ha plasmato il ruolo del Re condottiero Unno per mezzo di un’avvenente mimica dal pronunciato vigore muscolare. Nel ruolo dell’italica vergine guerriera Odabella, dal viso sempre contrito e digrignato, la mirabile soprano russa Svetla Vassileva: nei suoi repentini salti di tono, sul finire della cavatina del prologo “Ma noi donne italiche(..) sempre vedrai pugnar”, si è ravvisata la volontà di vendetta della giovane urlata in faccia all’invasore. Al tenore Fabio Sartori è stato affidato il ruolo del cavaliere aquilejese Foresto, innamorato di Odabella: in questo caso la virtuosa estensione vocale dell’artista si è misurata con un’ interpretazione a tratti sbiadita. Con il ruolo di Ezio, generale romano vanitoso e smanioso di potere (pronto al tradimento della patria pur di ottenerne una parte in governo ndr) si è confrontato nella sua voce aperta nitida e ambiziosa, il baritono Simone Piazzola.
L’Opera si protrae scorrevole e coinvolgente, come solo con Verdi può accadere, tra un dedalo di onde sinfoniche e fragorosi concertati finali, furiose strette di chiusura e crescendi dalla superba aurea divina (per inciso la scena in cui Papa Leone si frappone ad Attila, pronto a partire alla volta di Roma, ed invocando Dio ne provoca l’arresto); il tutto diretto con grande passione dall’ammirevole maestro d’orchestra israeliano Daniel Oren.
Alla morte di Attila , le cui braccia sono legate a due lunghe corde come fosse vittima di un bondage omicida, il pubblico è mosso a compassione dal suo urlo di sorpresa “E tu pure, Odabella” (che richiama alla mente il detto “Tu quoque, Brute” del morente Giulio Cesare sotto i fendenti dei congiurati ndr) ; Il Re Unno si trova disorientato dinnanzi alla foga di Odabella, la donna di cui si è sinceramente innamorato e della cui civiltà vorrebbe, adesso, porsi quale veicolo di rigenerazione nel solco di nuovi valori che sanno di giustizia e amore per il popolo e che sono lontani dalla corruzione e dalla cupidigia romana (rappresentata sin dall’inizio da Ezio). Restano il di lui stupore, e una femminea vendicativa mano armata di spada e insozzata di un sangue, che nulla mai riassesterà.