Il rosa, Adriana Lecouvreur, dischiuso sul bianco e nero di una trama intessuta di gelosie e ostilità. Una riuscitissima prova per il Teatro Massimo di Palermo. Il pubblico si divide nettamente tra entusiasti e scettici, mentre sul palco la protagonista non è l’unica diva
Adriana Lecouvreur è un equilibrato progetto d’alta ingegneria operistica. Una diga, di potente meta teatro e maestoso grand-Opéra. Un manufatto dall’innegabile attrattiva estetica e tappa d’indubbia utilità qualora si voglia descrivere l’evoluzione del genere operistico. Materia tuttavia fragile, che nelle mani sbagliate può implodere e accartocciarsi su se stessa o più miserevolmente svanire in una nuvola di fumo.
Francesco Cilea, che la compose, non aveva certo l’estro di Giuseppe Verdi nè la genialità di Giacomo Puccini. Fu però, ad onor del vero, uno studioso meticoloso e ossequioso della musica, e si è assicurato proprio con la sua Adriana Lecouvreur un serto nel firmamento dei grandi compositori d’Opera.
Rispettare la profondità ed i contrafforti dell’opera Adriana Lecouvreur equivale a valorizzarla e darle i giusti intenti. Restituirla nella sua forma più completa e brillante. Esattamente ciò che fa il regista Ivan Stefanutti.
L’ambientazione Liberty – con l’azione spostata al 1902, a discapito del polveroso ‘700 originale al libretto – vede gli arredi in stile Il Grande Gatsby privati del loro carattere arioso e lieve onde addensarsi e celare, appesantirsi ed insidiare, fondere e confondere il teatro con la vita. I costumi grandiosi in stile Titanic, che a mezzo dell’esaltazione in fogge e ornamenti inaspriscono la connotazione psicologica delle protagoniste femminili. Davvero, allora, si può parlare di pura genialità registico-descrittiva a servizio dell’opera di Cilea.
La bacchetta del maestro israeliano, Daniel Oren, sposa appieno un tale taglio registico. Egli rimesta nelle intenzioni recondite del Cilea e ne estrae un’esecuzione vivida ed impetuosa. La musica esce finalmente dalla fossa dell’orchestra, e si concretizza sulla scena. Non soverchia l’azione ma vi si amalgama con sistematica precisione. Sottolinea ed interloquisce. Esplode nei duetti d’amore, come la colonna sonora di un kolossal, Via col Vento docet.
L’orchestrazione dell’opera è cospicua e imponente, ma il maestro Oren con mano gentile, cattura e da risalto alla singola sfaccettatura d’ogni strumento musicale. Tra scampanellii, eterei sfarfallii d’arpa, roboanti percussioni militaresche e onde lunghe di violino.
Alla musica si sono intrecciate voci d’eccellenza. Il tenore Martin Muehle, nei panni di Maurizio di Sassonia, ha sfoderato una timbrica giovane e audace sostenuta da una notevole potenza vocale svettante nel registro acuto. Marianne Cornetti, come principessa di Bouillon, ha esaltato il pubblico con la sua voce poderosa e piena, poggiante su un ampissimo fiato. A lei il merito, tutto attoriale, d’aver reso il suo personaggio una vera detestabile antagonista. Un amico lirico e devoto, dalla timbrica rotonda e nitida, questo è stato il Michonnet (impresario d’Adriana) del baritono palermitano Nicola Alaimo.
La divina Adriana Lecouvreur, nella sua imperturbabile aura di regina delle prose scene, si è trovata a condividere lustro e tragedia con un’altra diva, un usignolo del bel canto che l’ha mirabilmente impersonata, la superba soprano rumena Angela Gheorghiu.
Angela Gheorghiu è una creatura affascinante e luminosa, dotata di una voce sopranile dai mille limpidi colori e quanto mai virtuosistica su ogni registro. La si ammira languida e travolgente nelle scene d’amore; la sua portentosa estensione flautata in perfetta sincronia con il tenore. La si contempla solenne ed enfatica, una novella Sarah Bernhardt, nel declamare i versi dalla Fedra durante il III atto. Nel dramma spiritato dell’aria “Poveri Fiori”, all’ultimo atto, ci si lascia ammaliare da un fraseggio cristallino dischiuso su una vocalità in acuto divenire.
La Gheorghiu incanta, e convince risolutamente anche i melomani più esigenti. Maestra di portamento, pose e atteggiamento colpisce il voyerismo dei puri esteti. La sua Adriana Lecouvreur non resta inerme sulla locandina e sulla ribalta, ma si scolpisce nella mente e nei cuori. Si lascia ricordare; e proprio in virtù di ciò si è pronti a perdonare alla soprano piccoli grandi capricci da star.
Un ritardo in scena, tra i più palesi; mentre il coro degli uomini, canta, estasiato da quello che dovrebbe essere l’incedere altero della sua femminea magnifica figura sul fondo scena. Lo sguardo di costoro, però, è perso nel vuoto, sgomento… si cerca di capire perché l’illustre collega non sia ancora apparsa in palcoscenico. “Si rifiuta di uscire in scena” serpeggia una voce in sala. Poi la Gheorghiu si materializza, e l’opera può proseguire. Il successo della Gheorghiu e dell’intera produzione è concreto, perché gli applausi scrosciano fragorosi ad ogni piè sospinto.
Un’ultima nota la si spenda per il corpo di ballo, degnamente rappresentato da tre ottimi primi ballerini Fabio Correnti, Elisa Arnone e Francesca Davoli su coreografie delicate ed eleganti di Giuseppe Bonnano nell’intermezzo danzato nel III atto. Un fauno e due ninfe hanno sostituito il classico Giudizio di Paride teriscoreo descritto nel libretto originale. La moda dei ballets russes e l’après-midi du faune di Nijinsky hanno fornito l’ispirazione e la contestualizzazione storica.
E’ un’Adriana Lecouvreur che si fa notare, con inattesa forza evocativa. E benché il cielo fuori della finestra di palazzo Bouillon sia grigio, neutro, perlaceo ella rifulge di luce propria.
Nelle sue décolleté tempestate di strass, sulla sua dormeuse bianco abbagliante a forma di conchiglia. Nel riflesso di un grande specchio, nel camerino di un teatro, coronata di luci dorate, Adriana Lecouvreur brilla, come un diamante.